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La Sopravvivenza PDF Stampa E-mail
La fede nella sopravvivenza è sempre stata praticata dall'uomo, che l'ha poi trasferita nella religione, nella mitologia e nella filosofia: a questo proposito basta ricordare il Fedro e il Fedone di Platone. La morte è la fine di un certo tipo di “ordine”, quello organico (fenotipo) con tutte le funzioni a esso connesse (nervose, respiratorie, circolatorie…). Ma è anche la fine della “coscienza” umana? Una coscienza, che ha voglia naturale, e quindi tendenziale, di immortalità, può mai avere autocoscienza della propria fine? Non sarebbe una contraddizione? O la coscienza è da identificarsi esclusivamente con le funzioni cerebrali e i loro infiniti riverberi neuronali (cento miliardi di cellule nervose, con circa 2000 possibilità di collegamenti fra l'una e l'altra), sicché, distrutti i secondi, anche la prima scomparirebbe? O, forse, con i soli meccanismi biochimici e biofisici (Riduzionismo), peraltro messi in discussione dalle osservazioni dei Premi Nobel E. P. Wigner e P. Jordan, secondo i quali esiste una “coscienza” nella produzione dei fenomeni anche fisici?


La diversità riscontrata nell'organizzazione funzionale dei singoli cervelli umani è solo dovuta a fattori genetici, molecolari e ambientali? In situazioni di sostanziale uguaglianza in simili fattori, come mai tale “diversità” sussiste e anche in maniera sensibile? Come si spiega, d'altro canto, il pensiero creativo? Solamente, forse, con la riorganizzazione dei dati archiviati o con un'improvvisa e imprevista illuminazione? Da dove proverrebbe quest'ultima? E la libertà? C'è, allora, un “quid” (lo si chiami anima, psiche, spirito, Io, intelligenza…non importa) che presiede alla formazione di tale strutturazione funzionale, conferendo un'identità inconfondibile a tale diversità? In realtà, al dire di G. M. Edelmann (34), nonostante la presenza di “mappe cerebrali” tra loro correlate da fibre di “neuroni rientranti”, ogni cervello è individuale, unico e irripetibile non tanto nelle sue funzioni, quanto nei suoi “prodotti”.

Non sembra convincente il ragionamento portato avanti dai sostenitori della neurobiologia (cfr. F. Crick e C. Koch, Il problema della coscienza, in “Le Scienze”-Quaderni, 82-1995-90/5), secondo i quali il fatto “coscienza” si spiegherebbe con le sole correlazioni fra le varie reti di neuroni (memoria profonda e superficiale, luogo della coscienza). Non escludo che questa, come tante altre, possa essere una delle “modalità” esplicative della mediazione cerebrale, ma resta sempre da chiedersi: “perché così” e soprattutto “chi” organizza quel “particolare” ordine di informazioni, tipico di ogni individuo? È, forse, il caso? Mi sembra improbabile, riduttivo, poco scientifico e certamente fuorviante parlare di una “diversità” casuale, che non riguarderebbe solo qualche dettaglio, ma elementi sostanziali e complessi, come i pensieri, i sentimenti, i desideri, i comportamenti…A questo punto mi sembra stimolante quanto prospettato dalla Meccanica Quantistica, secondo la quale nulla v'è di deterministico, ma solo di probabile, sicché, e mi rifaccio in questo alle ipotesi di J. Eccles e R. Penrose, la coscienza è una sorta di “salto quantico”, imprevedibile, dotato di una certa “libertà” creativa di fenomeni, assolutamente indipendente dal determinismo delle semplici interazioni neuronali. A tale proposito afferma Roger Penrose, il celebre matematico di Oxford: “Le nostre menti lavorano in un modo che non è computazionale…Ci troviamo di fronte a qualcosa di non riducibile alla fisica odierna.

Voglio dire che ci sono buone ragioni per credere che la coscienza sia al di fuori della fisica che conosciamo” (Repubblica, 12/03/2002, p.37). Siamo cioè di fronte, per dirla con Eccles, a “psiconi che dialogano” e selezionano informazioni provenienti dai neuroni (archivi o dati), organizzandoli poi in un sistema unitario di conoscenze finalizzato al proprio sviluppo cognitivo e operativo. Siamo, in altre parole, davanti a una realtà programmata in codice, secondo la “logica" di un “programmatore” intelligentissimo (“Io codificato nell'informazione genetica”: Alain Connes, matematico), sicché a spiegarne le funzioni non può essere né la meccanica né l'elettronica ma la “fotonica” e la “logonica” (=Scienza dell'Informazione). Alla morte della “corporeità somatica” segue la vita della “corporeità fotonica” (secondo la nota equazione di Einstein), perché il genoma è immortale, come il DNA (=luogo delle informazioni). Conseguentemente, con A. Turing, il dualismo mente-cervello (come voleva Cartesio) diventa insostenibile: del resto questo affermano, anche se sotto altre prospettive, l'informatica di Shannon e la cibernetica di Wiener.
Allora è ipotizzabile un'esistenza autonoma della coscienza: questa non “muore”, dissolvendosi, con la scomparsa dell'ordine organico.

Queste sono domande cruciali e fondamentali. Unendo insieme tutta una serie di “indizi”, si è indotti a credere in un Aldilà, luogo dove la coscienza esprime e realizza la sua autonoma esistenza . Giustamente fa notare L. Wittgenstein: “La risoluzione dell'enigma della vita nello spazio e nel tempo è fuori dello spazio e del tempo” e, con altre parole, lo stesso precisa: “La risoluzione del problema della vita si scorge allo sparire di essa”. Niente, cioè, si può spiegare con se stesso, quindi neanche la coscienza con le sue esigenze di immortalità e questa, secondo Platone, per due motivi: perché l'anima è “prigioniera del corpo e poi perché i sensi possono ingannarci”. La risposta agli interrogativi, dunque, è da situarsi “altrove”, in quel ragionamento analogico basato sul ricomporre in una unità di pensiero (e quindi di conclusione) ciò che solo apparentemente si presenta slegato: e qui ritorna il discorso sugli “indizi” e sul lavoro intuitivo, mediante il quale i vari “segni” (e, nel nostro caso, ce ne sono veramente tanti) riacquistano forma e figura e vanno a creare il mosaico della conoscenza. D'altronde quante volte anche nell'attuale condizione terrena di vita si procede così, a partire dai rapporti interpersonali e sociali per finire ai sondaggi demoscopici o nel marketing, come, per altro verso, lo stesso K. Gödel, nel suo famoso teorema, parla dell'esistenza di realtà indimostrabili, a condizione, però, che, per provarle, si faccia ricorso a linguaggi non ad esse interni.

La sopravvivenza, allora, è postulata da una serie di esperienze (escluse naturalmente quelle fondate sulla frode), sulla cui veridicità nutrire dubbi è legittimo perché alla base della scienza, ma è anche vero che l'evidenza e la concordanza dovrebbero indurre a un minimo di prudenza nei giudizi. Del resto, perché si ammette anche da parte della scienza la complessità del nostro essere e poi si nega dalla stessa la possibilità di altri ambiti della medesima complessità, come quella appunto della sopravvivenza? Non sembra una posizione pregiudizialmente difensiva, perciò ingiustificabile e preconcetta? In queste cose un po' di umiltà non farebbe male!

Da alcuni anni a questa parte il mondo dell'invisibile sta restringendo e avvicinando sempre più i suoi confini, diventando ogni giorno più visibile: il cannocchiale, il telescopio, il radiotelescopio, la radio ricevente, i Rx, la TAC, la Tomografia a Emissione di Positroni (TEP), il microscopio elettronico, l'acceleratore di particelle e tutte le altre apparecchiature elettroniche stanno squarciando il velo di Maia delle grandi come delle piccole dimensioni. Non parliamo poi dell'annullamento di tempi e distanze attraverso l'informatica (Internet) e la telematica. S'immagini che il nostro orecchio può percepire solo onde della lunghezza compresa tra i 17 m e i 2 cm, mentre il nostro occhio può spaziare fra onde luminose della lunghezza espressa fra i 0.4 e i 0.8 , una radio ricevente capta onde fra alcuni centimetri e molti metri. C'è ancora tanto, quindi, da scoprire e “vedere” ancora. Scrive J. Ratzinger nel suo libro-intervista “Dio e il mondo”: “Dalle forze che non possiamo vedere e le cui azioni però avvertiamo, traspare il fatto che il mondo va ben oltre la portata del nostro sguardo, oltre quanto ci rivelano i fenomeni sensibili”
La Meccanica Quantistica parla di tanti “paradossi” (effetto tunnel, azione a distanza di una particella sull'altra, con possibilità di superare il limite della velocità della luce di 25 volte, secondo il gruppo italiano del CERN, e di 300, secondo ricercatori americani , con la conseguenza che il futuro possa influenzare il presente, ribaltando il principio “causa-effetto”), di particelle e antiparticelle (previste queste ultime nel 1928 dalle equazioni del fisico britannico Paul Dirac e confermate presso il CERN di Ginevra nel 1995), cioè di mondo e antimondo (P.Dirac) quasi simmetrici e comunque paralleli e contigui: un loro “contatto” provoca la produzione di fotoni della radiazione gamma a velocità della luce (oppure di mesoni o K), una forma di elettromagnetismo molto penetrante del tipo di quello liberato anche durante le reazioni nucleari (39). Non può esistere una zona di frontiera fra queste due realtà? Essa non potrebbe collocarsi in quello che la Meccanica Quantistica chiama “campo”, in quell'area cioè (non nel vuoto, che non esiste) dove la massa cessa di essere e si trasforma in “energia di campo” (=fotoni dei raggi gamma) con la presenza di elettroni allo stato virtuale? (40). È in questa “zona” che si creano i “salti quantici” e, forse, tutte quelle esperienze di fluttuabilità (fenomeni virtuali) tipiche anche del paranormale. Se in natura nulla si crea e nulla si distrugge ma tutto si trasforma, ciò vuol dire che anche l'autocoscienza si trasforma, certamente potenziandosi nelle sue interne virtualità. Credo che tra mondo e antimondo ci sia un rapporto di specularità simmetrica, di stretta vicinanza, direi di olismo, che trova il suo “luogo” di incontro-scontro ai livelli psichici (o spirituali), dove appunto si verifica l'insieme di quei fenomeni definiti luminosi (illuminazioni varie, estasi, parole di luce, gioia come accade nella mistica e nella transcomunicazione, straordinarietà nelle autentiche esperienze di medianità: un insieme cioè di energia e di virtualità). A questo livello il rischio è minore se si riesce a creare una profonda e aperta sintonia comunicativa: è proprio qui che si apre il “varco”, a condizione, però, che si allenti un po' il peso della dipendenza dai sensi e da tutto ciò che ad essi è legato.

Chiarito ciò, tutti gli studiosi di queste problematiche considerano, dunque, la vita psichica dell'Aldilà come un “continuum” non solo spazio-temporale ( il “cronotopo” di Minkowshi), ma anche in quanto a modo e forma: non esiste, cioè, frattura, ma progressiva evoluzione o, secondo A. Carrel, “estensione al di là dello spazio e del tempo”. La “tanatologia” (scienza della morte) deve tener conto di tutto questo, della possibilità cioè di un'esistenza totale, nella quale passato-presente-futuro (relativi solo al nostro “divenire” terreno) nell'Oltre costituiscono un “unicum” sempre “presente” e operante, proprio perché il “divenire” non esiste più in quanto sostituito e assorbito dall' “essere”. La psiche cioè si esalta nelle proprie facoltà conoscitive ed affettive, avendo come ultimo fine il raggiungimento dell'equilibrio, dell'ordine e dell'armonia. Il matematico L. Fantappié chiamò questo stadio finale del percorso evolutivo, come già detto, “sintropia” (massimo ordine). Più o meno è lo stesso concetto elaborato da E. Bozzano.

Come si prospetta questa evoluzione della psiche? Non certamente com'è sostenuto da Platone, cioè come di un “sonno senza sogno”. Non sarebbe un'evoluzione, a meno che dopo del sonno non segua un risveglio. E poi, si potrebbe anche dire, la nostra attuale vita non potrebbe essere il sogno di un sonno che si va facendo in una dimensione della psiche diversa da quella attuale? E qui il gioco potrebbe essere tirato per le lunghe all'infinito! È probabile, invece, che le cose stiano in maniera più semplificata. L'Aldilà non è un risveglio, ma un percorso, che, iniziato nell'Aldiqua, procede e prosegue senza soluzione di continuità e senza traumi (tranne quello della morte fisica, che è come la fuoriuscita della farfalla dalla crisalide) nell'Aldilà. È come un improvviso “dilatarsi” di orizzonte o un allargamento di frontiera verso panoramiche luminose e appaganti: d'altronde proprio a questi alludono le varie esperienze e tutte fra loro stranamente (!) concordanti. Non si vede come sovrapporre a esse i nostri angusti schemi fondati perlopiù sul limite e sulla precarietà, quindi insufficienti a delineare un quadro compiuto della realtà.


 

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