Immersi, come si è, fino al collo nella distratta
stupidità dei minipensieri legati alle
necessità e spesso agli intrighi della vita quotidiana, elevare un po' lo
sguardo e riflettere sul senso del vivere e del destino dell'uomo sembra ai più
un'esercitazione mentale o semmai un avanzo culturale d'altri tempi. E invece non è così: si è catapultati in
questo discorso solo quando si assiste a scomparse improvvise di persone care,
di giovani, di bambini o di amici. Ma
anche in quelle circostanze ci si ferma per un attimo, solo per un attimo
purtroppo, e poi ciascuno si rituffa nella routine della ripetitività di gesti e
di azioni spesso senza nessi.
Gli uomini più pensosi, quelli cioè che sanno vivere
nel concreto senza lasciarsi condizionare da esso più di tanto, si sono sempre
posti la domanda di fondo, dalla cui risposta la vita può acquistare un senso
ben definito: dove andiamo? Le soluzioni prefigurate sostanzialmente si
riducono a tre: lo scetticismo, il nulla, l'immortalità.
Lo scetticismo. È la posizione di quelli
che esorcizzano la domanda e tirano, come suol dirsi, a "campare", cogliendo
del giorno l'attimo, i piaceri, le sensazioni, anche quelle più irrazionali, l'effimero
quanto vuoto successo: è il famoso "carpe diem" oraziano. La matrice culturale
che sta alla base di questa scelta, o meglio non-scelta, è una sorta di
sospensione del giudizio e della ricerca, fondata sulla premessa che sarebbe reale solo ed esclusivamente il
visibile: di ciò che potrebbe esserci oltre, secondo costoro, è meglio tacere.
Questa lettura delle cose viene da lontano: da ERACLITO , PIRRONE, EPICURO,
CATULLO, LUCREZIO, PETRONIO, CARTESIO, VICO,
KANT, COMTE e via via fino ai
moderni filosofi della scienza
(empirismo logico del Circolo di Vienna, pensiero debole dei vari VATTIMO, CACCIARI,...).
Il nulla. È la posizione di quelli
che accettano la sfida della domanda, ma, data l'inevidenza della
risposta, concludono che tutto si
risolve nel nulla, una sorta di deflagrazione che disintegra ogni cosa,
compresi i pensieri, i desideri, dolori ed emozioni. Tutto, secondo questi, sarebbe illusione, delusione,. tragica
commedia, fallimento totale, abisso oscuro che inghiotte e annega speranze e
gioie, progetti e fantasia. La schiera di chi la pensa così è variegata: dai
tragediografi greci (ESCHILO, SOFOCLE, EURIPIDE) allo stoicismo di ZENONE e, in parte, di SENECA, dalla rivolta
degli SCHOPENHAUER e dei NIETZSCHE alle
"nausee" degli esistenzialisti (SARTRE, CAMUS), dal materialismo decadente dei
FEUERBACH e dei MARX al vago panteismo degli SPINOZA e del buddismo o dell'Illuminismo di ieri e di oggi
(VOLTAIRE, SCALFARI...), dalle oscurità notturne dei FOSCOLO e dei LEOPARDI alla sconcertante rassegnazione dei PROUST, dei MUSIL, dei KAFKA, dei FREUD
o di SVEVO, fino ad arrivare al teatro dell'assurdo di BECKETT e di JONESCO o alla " grande muraglia" di MONTALE e
della generazione dei tanti scrittori
e pensatori contemporanei (PAVESE, MORAVIA, MANGANELLI, EMO...).
L'immortalità. È la soluzione difesa nel
tempo dalle varie religioni con tutti i
rituali funebri ad esse collegati, da moltissimi filosofi, da tanti grandi
scienziati (per tutti, A. EINSTEIN), dalle innumerevoli esperienze portate avanti
con rigore scientifico da seri ricercatori (GEMELLI, JÜRGENSON, RAUDIVE,
ERNETTI, LIVERZIANI, MOODY, RYZL, BRUNE, MAGNI, BACCI,...) e, perché no, da una
spassionata riflessione condotta avanti con i semplici strumenti della razionalità.
Che dire? A parte il rispetto che nutro e che si
deve a ciascuna delle grandi personalità menzionate sopra come a ognuna delle soluzioni
prospettate, io credo, però, che se una domanda è ponibile ( o è posta), vuol
dire che ci deve essere anche la
possibilità di una risposta, altrimenti la domanda non si porrebbe. La
risposta, poi, non sta all'interno della domanda ( niente si spiega da sé, come
giustamente sosteneva RUSSELL), ma fuori di essa: e qui occorre una grande capacità intuitiva che aiuta a saper
"collegare" i vari e solo
apparentemente slegati elementi
nella sequenza di un discorso coerente e unitario. Di questi "segni" nella vita
e nelle cose sono disseminati tanti ( eventi misteriosi, miracoli, sogni
premonitori, apparizioni...): ci vuole solo un minimo di attenzione e soprattutto
una buona dose di lucida apertura mentale. D'altronde anche la scienza moderna
( fisica quantistica, cosmologia, la neuropsicologia, la matematica di L.
FANTAPPIÉ o di G. ARCIDIACONO) è molto
più cauta e prudente nel dare un valore universale e definitivo alle sue
asserzioni: sta, cioè, riscoprendo i suoi limiti e non poche volte bussa alle
porte della filosofia e della stessa
teologia per avere una qualche risposta. Il "nulla" poi è un non-problema,
perciò una non-sluzione, come a dire un'assurdità logica (oltre che
psicologica) criticamente insostenibile, perché semplicemente "non spiega"
(d'altronde come potrebbe se è appunto "nulla"?).
Il CRISTO
morto e risorto è il segno
storico della realtà d'una risposta in termini di immortalità. È una sfida alla
pretesa assolutezza della ragione, va oltre
i parametri della causalità e del tempo: insomma è un pezzo d'eterno
schizzato nella storia. Del resto con i
nostri appena 5 gradi di possibilità conoscitive è mai possibile
concludere sulla realtà dei 360 gradi?
L'uomo, dopo la morte fisica., dunque conserverà la
sua individualità , i suoi affetti, la sua memoria, la sua identità: anzi il
tutto, ma ad un'altra dimensione (ipotizzata, peraltro, anche dagli stessi
matematici, come, ad esempio, da R.RUCKER), sarà finalmente potenziato. Solo un
"velo invisibile" (a noi) separa le due
"forme di vita". Questo non è solo speranza: a ben rifletterci, è
l'intelligente e accorto uso della razionalità a postulare la sua trasformazione in certezza. Solo che,
in questo mondo di dubbi saccenti (
definiti dallo scrittore S. RUSHDIE "false vestali della cultura"), per
arrivare a simili conclusioni occorrerebbe far rifiorire, con pazienza e senza più cieche
presunzioni, la pianta genuina e trasparente
dell'umile (ma vera) saggezza.
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