La vita è un grande mistero, un brancolare nel buio di mille domande come un viaggio fra il labirinto delle cose alle
quali si vorrebbe dare un nome, ma nome non possono avere perché sfugge
la loro più intima natura. Quando poi si va per sondare il senso ultimo del
vivere, del morire, del «dopo», qui l'intelligenza vacilla e subentra la fede,
che, al dire di Kierkegaard, è sì un "salto", ma anche attivazione
dell'intuizione, dell'immaginario, della poesia. È l'operazione mentale e
umana che facciamo tutti e, nel nostro caso, in maniera egregia anche don
Santino Spartà, un uomo e un prete, che, come un C. Rebora o un padre Turoldo,
va diritto al cuore del problema: c'è un Essere, ragione ultima di ogni realtà
e luogo psicologico nel quale può trovare una sua piena armonia il nostro
bisogno d'immenso e di eterno? E se esiste, può essere da noi intravisto sotto
forma di una persona con noi dialogante nel tempo? Lo Spartà si pone con
coraggio e, direi anche, con un pizzico di rabbia questa domanda: nella nostra
società pervasa da una diffusa secolarizzazione non è poco, specialmente se si considera che un filone della teologia ha
neutralizzato il problema con la negazione (si ricordi il "Totalmente
Altro" di K. Barth o quello della "morte
di Dio" di H. Cox). La questione è tutt'altro che risolta, anche se,
al dire di Th. Eliot, Dio sembra essere "assente" dalla
storia dell'uomo. Don Santino, da buon giornalista, con la metafora dell' "intervista"
recupera la domanda e alla fine, come vedremo, approderà anche a una risposta.
Il poeta
Spartà, che naturalmente così fa anche filosofia, teologia e mistica, comincia
con il chiedersi: "Dove sei Signore?" (Stringo un altro po' di gioia).
Quella che egli definisce "la nostra ansia d'infinito" (Ti raggiungeremo)
nasce dal fatto che si è "turbati dal mistero" (Non resterei turbato). Ha ragione M.G. Lenisa a chiamare questa ansia "brama, desiderio
intenso, stato affettivo puro" (cfr. La
poesia di Santino Spartà, Rogate, Roma 1997, p.20).
Don Santino è un uomo sincero e, come tale, è immediato ed esigente,
sempre proteso a «frugare / senza paure / il gran mistero» (Quel che rimane).
Anzi si spinge oltre: "Spesso le mie dita / vorrebbero sfiorare / il tuo viso»
(Spesso le mie dita).
Ma quel Dio "verso incompiuto / sulla terra" (Nell'attesa)
sfugge, si fa cercare, tanto da far esclamare al poeta: "Tu non ci sei più,
Signore" (Stringo un altro po' di gioia). E allora lo Spartà-poeta attiva una prima strategia, quella
della gelosia. Scrive infatti: "Nessuno sappia / il segreto / che debbo
confidarti" (Ti aspetto di notte). Dio tace, sembra sottrarsi a
un'offerta confidenziale. Il poeta incalza: "Orfano sei rimasto, Signore, / con la casetta di gesso / sui monti irreali"
(Non troveresti una vergine...). Ancora una
volta Dio non risponde, ma il viaggio esplorativo dello Spartà continua
"perché a nessuno / è dato di fermarsi" (Voltati almeno...) e
gli chiede almeno un "segno" : "Se non è possibile / intervistare / il mistero
quaggiù, / che mi mandi / almeno un messaggio, / pur negativo. / È quanto mi
basta" (È quanto mi basta).
Fa tenerezza questa insistenza, quel "fuggo ogni giorno / sotto tiro di
fionda / e non so dove andare" (Fuggo ogni giorno), ma è anche
espressione di un reale disagio per una domanda vitale, alla quale il Dio
della Vita non risponde. "Com'è possibile che tu, Parola Eterna, / sia rimasto
ancora zitto / dinanzi al mio interrogare?" (Più volte ho eluso).
Il poeta, nella sua onesta ricerca di verità, non riesce a capacitarsi perché
Dio non ceda a una legittima pressione psicologica: in fondo dove e in che cosa
Dio verrebbe meno nella sua dignità? "Presenza Divina / sei ovunque, / perché
ti nascondi / dietro quel mistico scoglio / e nella parte più profonda di me
?... Non credo che il mostrarlo / sia sottrarre / un frammento alla tua
divinità" (Dietro quello scoglio): Dio, pur avvertito come "presente",
viene come accerchiato dalla domanda di visibilità. L'uomo deve fare i conti
con la propria corporeità, strumento attraverso il quale si avvia il processo
conoscitivo, ma Dio è molto attento a evitare fraintesi e confusioni: evita
l'assenso, perché la strada da imboccare vuole che sia quella giusta, cioè
quella dell'interiorità. Qui lo Spartà vi perverrà, ma dopo un penoso
purgatorio fatto di silenziosa solitudine, in cui l'Io è messo a nudo e quasi
liberato dalle scorie contaminatorie della materialità.
A questo
punto seguono momenti e stati d'animo di profonda angoscia, che risulterà poi
essere il terreno più adatto da battere per poter ritrovare il cammino verso la
scoperta della Terra Promessa: strano, ma ogni seria ricerca non può sfuggire
alla legge del deserto. Così è per lo Spartà. A questo proposito e per questa
fase seguono alcuni testi del poeta che esprimono un misto di sentimenti che
oscillano fra l'attesa e la rassegnazione, lo sconforto e un embrione di
fiducia:
«Presenza Divina, continuo a bussare
e tu non mi apri,
a chiedere e non
mi esaudisci, mi hai lasciato solo
nella sala da pranzo
senza la tunica bianca».
{Sono in
balia delle onde)
«Perché mai
continuo a essere sempre più solo?».
{Ogni giorno)
«Mandami almeno
virgole
di luce per la notte seguente».
{Luna della mia terra)
«Spesso mi sento parola
in disuso nel dialogo eterno».
{Se tu mi hai promesso)
Indubbiamente il poeta avverte l'amarezza del
silenzio divino e lo esprime a più riprese con toni e accenti via via
crescenti:
«Mi sorprendo
solo su una strada.
Ignoro dove porta.
Non ho paura. Nascondo
nello zaino speranze».
{Mi sorprendi solo)
«È proprio così
difficile parlare con Te, Signore,
o i tuoi segretari
non capiscono
l'urgenza
di un colloquio?»
{Da quel mitico faraglione)
«Ma non parlasti
nemmeno questa volta.
La tua presenza forse
è già un colloquio
e tu hai paura
di rimanere solo?»
{Più volte ho eluso)
In questi ultimi versi si noti come il poeta accenni
anche a una possibile solitudine divina: in realtà è una proiezione della sua,
ma anche un invito accorato a che Dio si slacci il suo scialle:
«Signore avvolto
in uno scialle
di lana».
{Stringo un altro pò ' di gioia)
Volontà e nostalgia
si rincorrono
nel cuore del poeta:
«Nel
tuo incessante fluire
rincorro
l'eterno».
{Tra le tue acque)
«Non so cosa ci sia dentro
il tempo anelante verso
una meta che esso forse
non sa. Nostalgia
di un miraggio sfumato?»
(È rimasto sconfitto)
«Scavando ho trovato
il peccato
di Adamo
con salice piangente
e la nostalgia
di una casa perduta».
{Ho trovato il
peccato)
Non manca una diffusa
sensazione di lamento, nella quale si avverte come uno scarico di tensione
interiore:
«Non mi stanco,
Presenza Divina,
di invitarti a
depositare
tra le mie esili dita
seta e preghiera
e a strappare
quelle spine
che si ostinano
a pungere l'anima».
(Non mi stanco)
«Ho chiesto da tempo
di intervistare il mistero,
ma non ho ancora
avuto nessuna risposta».
(Con me e
il mistero)
«Da tempo
interrogo
il mistero e Lui si sforza
di chiarire le domande
senza però
mostrarsi mai».
(Senza
mostrarsi mai)
Come si può notare, lo Spartà si rende ben conto che non è tanto la risposta
che a Dio interessa quanto il chiarimento della domanda: Dio è un interlocutore
esigente e l'esigenza impone sempre un po' di sofferenza.
Il poeta, però, nonostante abbia
ben compreso tutto questo, e qui subentra la sua umanità, continua nella sua
richiesta di un segno:
«Ora che un telegramma
mi ha confermato
la tua assenza, Divina Presenza,
ha smesso di tintinnare
alle corde la speranza
ed anche il tramonto
è sceso nel mio cuore».
(Il tramonto è sceso nel cuore)
«Sarà ancora
dura fatica il vivere?».
(Non
scenderà più alba)
C'è un po' di rabbia nel
poeta
per questo silenzio
di Dio, un
Dio-Assente-Presente:
«Non può durare a lungo
questo anelare
senza mai conoscere
il mistero.
Io non lo invoco più».
(Se
mi tormenterà)
«Penso che il mistero
non mi concederà
l'intervista,
perché teme forse
che una volta
conosciuto
smetterei di cercarlo
per sempre».
(Penso...)
«Se tu, Presenza
Divina,
non ti farai intervistare
su questa terra,
ti terrò il broncio
nell'altra,
almeno nei primi giorni
dell'incontro».
(Ti terrò il
broncio)
Sono queste immagini e
sensazioni che sanno quasi di "scacco" e invece costituiscono la premessa per un processo di risalita: si è
raschiato ormai il fondo della solitudine, del quasi-abbandono come
Cristo sulla croce. Di questo il poeta è cosciente e lo dice chiaramente:
«Così a passo d'esule
ascendo il calvario
per
accostarmi,
Veronica vivente, alla tua croce».
(Qui
vorrei consumarmi)
«Io sono il mio
peccato,
Signore... Da secoli
mi cerchi per restituirmi
ciò che non è
tuo».
(Confesserò)
«Il tuo respiro
era rimasto ad agonizzare».
(Ti incontrai senza nome né casa)
«Vorrei dialogare
con Lui
senza la confidenza
dei mistici ma da uomo peccatore».
(Inquietudine)
«Nel mio getsemani
ancora nessuna violenza di letizia».
(Non scenderà più alba)
«In qual luogo
posso incontrarti, Signore?
Ti ho cercato nel Getsemani
senza lasciarmi vincere
dal sonno, come i tuoi apostoli.
Ho scoperto solamente
un calice spezzato
ed un bacio appeso
all'Ulivo.
Ti troverò senz'altro;
forse in eterna agonia?»
(Ti troverò
senz'altro)
«In cima tornai a voltarmi,
per salutarti
con lo sguardo in sudore».
(Ti incontrai senza nome né casa)
«Ora l'uomo vittorioso
brancola nell'oscurità mentre
a Te, in catene,
son rimaste sorelle le
lucciole».
(Geme la terra..?)
Il poeta ha placato la sua ansia, ha capito che il linguaggio di Dio è
diverso dal nostro, il suo silenzio
è un'offerta a porsi su un altro piano dialogico. Ed è quello che si
matura nell'itinerario interiore dello Sparla, anche se non mancano ancora
sprazzi d'ironia come in questi versi:
«Ci assisterà il divino
abate del convento».
(Ci assolverà il divino)
«Se voglio sentire
la tua voce
debbo rinchiudere
in un angolo
seduzioni e rumori
ma gorgoglieranno nell'anima
poi parole profetiche?»
(Se voglio sentire)
«Hai promesso, Signore,
di farti presto raggiungere,
quando non lo sappiamo, f
orse in quel mattino
scortato da mongolfiere?»
(Ti raggiungeremo)
Dio ha voluto creare
nell'animo del poeta un largo margine di silenzio, perché è proprio lì che
l'ascolto si fa più vero e si riscopre il volto del Trascendente. Lo Spartà,
però, che mistico non è ma poeta, come tale, al dire di R. de Réneville, «s'incammina
più verso la parola che verso il silenzio», anche se di quest'ultimo ben
comprende l'importanza perché senza di esso la parola può rivelarsi priva di
senso e di contenuti.
A questo punto c'è una
svolta nella ricerca spartiana: quando il poeta smette o smorza i toni della
domanda, il mistero allora comincia a disvelarsi.
«I morti hanno parlato
finalmente, ed il pesco
è
fiorito in mezzo al gelo».
(Incontrati con loro)
«Allora è meglio
che io continui a cercare».
(Cerco tuttora)
«A nessuno hai permesso
di sfiorare la tua privacy».
(Se ti mostrassi)
Nell'attesa il poeta
chiede di rimanere tranquillo:
«Se non mi è possibile
raggiungere
l'essenza dell'anima tua,
potrò accompagnarmi a te
affinché il mio cercare
sia meno pesante».
(Se non potrò)
«Ti chiedo solamente
che io rimanga sereno
dinanzi al mistero».
(Non ti
prego)
La riconquistata quiete interiore produce un
dischiudersi di orizzonti imprevisti:
«...primo fra tutti incontrerò
nelle mie mani il
mistero».
(Immutato
quel giorno)
«Lo sguardo si allunga
nel mistero».
(Meditazione)
«Finalmente mi
hai rivelato
il segreto della tua dimora».
(Il segreto
della tua dimora)
Persistono ancora, com'è naturale, delle zone
d'ombra, ma ormai lo sguardo si è affinato per scrutare lontani confini:
«...sprazzi di oscurità nelle mie pupille».
(Non è
riuscita a schiarire)
«La vita
n Te, Signore,
è onda,
sulla sabbia, schiuma».
(Senza di te)
«Resta con noi,
Signore».
(Affinché il
pettirosso)
Il poeta, però, non si ferma solo o prevalentemente a contemplare questa
nuova frontiera del conoscere. Sa bene che la sua vita è ancora scritta nelle
coordinate spazio-temporali e in qualche modo ne accetta i limiti:
«I pioppi mi diranno
scarne leggende
e gli uccelli del Sud
mi indicheranno il cammino».
(Verso il mio cielo)
«Rimarrò ad aspettarti
anche quando l'estate
avrà prosciugato le
speranze».
(Sono
sempre ad attenderti)
«Sapevo
che venivo da lontano
e una siepe di bianc
ospino era la meta».
(Così ti ho incontrato)
«Ti aspetto ormai da tempo
a quel chilometro fatale
senza dare segno di stanchezza».
(Ti
aspetto da tempo)
«Se non altro scopri
del tuo volto
quel tanto che mi basta
per non sentirmi abbandonato
ai bordi di un aereo fiordo».
(L'unico
amore mio)
Il poeta, in questo nuovo stato d'animo, riscopre il
valore intermediario della natura e affida
ad essa il compito di rendersi interprete presso Dio dei suoi
sentimenti:
«Al primo fringuello
ho
affidato per te voli di certezza».
{Incontrati con
loro)
Ormai il suo cuore ha
ritrovato la pace e la mente una sosta alla sua ansia conoscitiva. Si rafforza così la solidarietà verso i propri
simili, che in termini cristiani si chiama carità. È l'approdo naturale
al quale è stato condotto dal Dio silenzioso: è nell'amore universale verso
tutti e verso tutto che si attinge il Suo volto e la Sua invisibilità si fa
storia, cioè l'Uno diventa molteplice. Il poeta lo dice con lucida chiarezza:
«Che il tuo pensiero
si faccia in me
parola
e la tua presenza fecondi
l'amara solitudine
dell'attesa.
Nella tua dolcezza
immergerò il mio essere
per farsi carità
per tutti».
{Che il tuo pensiero)
«È venuto il tempo
di tenerci per
mano...
per non distrarci
dal nostro
anelito di eterno».
{È
venuto il tempo)
«Che io resti innocente
per
non litigare più col mistero».
{Con Dio)
«Sulle rive del tempo,
pellegrini gli uomini
in un risucchio
di pace».
{Ora che siamo al
pozzo)
«Ho visto il
dolore
in soave riposo
...
l'odore di Cristo».
(Ti ho
baciato sul viso)
Le
immagini alle quali lo Spartà fa ricorso, come si può vedere, sono abbastanza
eloquenti e ricche di contenuti semantici: presenza fecondatrice della solitudine, carità per tutti, tenersi
per mano, non litigare più con il mistero, il pellegrinare umano,
l'odore di Cristo. L'enigma in qualche maniera si è sciolto, la parola-poesia
è diventata strumento di catarsi interiore, l'approdo, dopo la tempesta e il
naufragio vacillante della mente, è al-l'or,izzonte, anche l'ansia e, perché
no, la rabbia sono lontani ricordi di un cuore che voleva «toccare» il suo
«oggetto» d'amore: per fortuna questo «oggetto», con il suo silenzio, si è
sottratto alla categoria del «possesso» per farsi attingere come «soggetto»,
l'unico paradigma possibile nel quale un «vero» dialogo può prendere avvio. Il
poeta-Spartà alla fine perviene a questa conclusione, che si esprime con il
canto e l'inno di ringraziamento. Davanti al «vero» amore non c'è che da dire
«Grazie», perché esso è libero dono offerto in un libero scambio di crescita a
un uomo libero dai lacci della spazio-temporalità:
«Ti ringrazio,
Divina Presenza,
per aver scritto di tuo pugno
che sei il TUTTO.
Così finalmente metterò
punto alla mia inquietudine».
(Grazie)
L'opera
poetica di don Santino Spartà, che attraversa molti anni della sua vita, si
presenta come una sorta di autobiografia spirituale. Il fatto di essere un
prete non gli impedisce di cercare. In questo risiede la sua modernità e lo rende molto vicino alla nostra
sensibilità di uomini del Duemila. Ripropone un tema, quello di Dio,
con grande coraggio, specialmente oggi in cui sembra prevalere il cosiddetto
«pensiero debole», per non parlare della cultura e della pratica del vuoto e
del nulla. La sua poesia, così, anche se parla di fede, non è religiosa, ma
squisitamente laica, perché la domanda, espressa con un linguaggio talora
drammatico e sincopato nella sua nudità verbale, è comune a tutti. E vero che
in lui non ci sono dubbi, ma è anche vero che non ci sono certezze, se per
certezza s'intende un qualcosa di "dimostrato": esiste, però, quel "sentire
religioso", fatto di intuizione, di attenzione al sillabare silenzioso del
creato, di ascolto dei più nascosti e
impercettibili palpiti delle cose. E in questo silenzio interiore, voluto dal
«silenzio di Dio», che egli riscopre la ragione del vivere. E Dio non gli si
nega: dopo tanto sincero soffrire, caduto il sipario del sensibile e approdato
al pozzo di Sichem, finalmente si spiana la visione della Terra Promessa.
Frattanto la vita nel tempo continua e il dialogo di don Santino Spartà
da semplice anche se accorata richiesta d'«intervista» si trasforma in Parola-Testimonianza di Vita da offrire a chi ancora è in cammino verso la Luce.
(Relazione tenuta
all'Università Urbaniana in occasione del Convegno di Studi su don Santino
Spartà, Roma 24-25 ottobre 1997)
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