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L'ambivalenza del dolore PDF Stampa E-mail


Essere coscienti di soffrire e di far soffrire quanti stanno attorno è una realtà molto drammatica che attraversa molteplici situazioni e perciò merita un'attenta riflessione. In questa ottica oggi non a caso si parla di testamento biologico, di volontà ultime tendenti, si pensa, se non a eliminare, almeno ad attutire una rassegnata sensazione di impotenza di fronte al dolore proprio e altrui.
Procederò con ordine, cercando di precisare alcuni passaggi che ritengo siano necessari da chiarire.
La sofferenza. Indubbiamente questa è un'esperienza di disequilibrio, di anomalia, di un'assenza indefinita e indefinibile, di una sorta di tormentata difficoltà a trovare una soluzione al groviglio di un problema ritenuto irrisolvibile. Quest'ultimo può essere di ordine fisico o di natura psichico-esistenziale.
Alla prima categoria appartengono tutte le patologie organiche che rendono invalidanti, sospendono per qualche tempo o a lungo la percezione del benessere e vengono elaborate dai centri nervosi come un qualcosa di estraneo, di innaturale, di turbolento e quindi di conseguente non benessere fisico.
Alla seconda categoria, quella psichico-esistenziale, fanno riferimento l'insieme dei disturbi dell'umore e del comportamento (nevrosi, ansie, fobie, panico, depressione, psicosi lievi, tossicodipendenze, ecc), gli eventi che procurano fratture traumatiche negli affetti (lutti, separazioni, incidenti stradali o sul lavoro), situazioni socio-economiche che generano una perdita di tranquillità e di libertà (dissesti o fallimenti finanziari, clima sociale di incertezza e di precarietà, disoccupazione, offesa al bisogno di libera espressione del pensiero, dittature varie, ecc), fenomeni naturali che producono disastri duraturi o irreversibili a vite e cose (terremoti, frane, eruzioni vulcaniche, ecc).
Dal momento che l'uomo, nell'attuale condizione, è un unicum psico-fisico, c'è da dire che a ogni disagio fisico corrisponde specularmente sempre uno psichico  e viceversa: è una reciproca osmosi di risonanze che la psicosomatica ha ben descritto nelle loro varie manifestazioni.
La sofferenza è un accidens non naturale, una ferita che si scrive sulla pelle di una persona magari improvvisamente e potenzialmente comunque sempre rifiutata, perché si è nati per essere completi, cioè senza mancanze o assenze, per godere di una piena felicità: resta, però e purtroppo,  una realtà, quella del non star bene, con la quale occorre fare i propri conti e indagare per ora sulle sue cause, e sulle sue colpe, ci porterebbe molto lontani, per cui mi astengo dal farlo in questa sede.
La coscienza della personale sofferenza. Solo alcune patologie non implicano necessariamente autoconsapevolezza del proprio gravissimo stato di salute (schizofrenia, morbo di Alzheimer, coma profondo), anche se della dinamica  più intima di queste  si sa ben poco, soprattutto nulla si conosce se nel profondo della psiche di questi soggetti non ci sia qualche traccia seppur lieve  di dolore cosciente: io sono propenso a credere di si, considerando la reazione positiva o negativa del paziente di fronte alla natura positiva o negativa  degli stimoli esterni che a lui vengono offerti. In simili casi parlare di vita soltanto vegetativa mi sembra quantomeno azzardato o estremamente riduttivo e talora  anche incomprensibilmente sbrigativo: questo pone un responsabile e serio problema etico relativamente alla discussione o, peggio, alla pratica dell'eutanasia, specialmente se compiuta per motivi ideologici in modo superficiale o a cuor leggero. Se lo strumento (cervello) è malridotto, non per questo l'artista che lo abita (l'Io) è necessariamente malato o totalmente ignaro di ciò che gli sta accadendo.
Per le altre patologie sia organiche che psichiche invece l'autocoscienza di soffrire è molto alta. Peraltro è  sotto gli occhi di tutti e la mia ormai lunga esperienza di psicoterapeuta lo conferma giornalmente e ampiamente. Si soffre e talora anche atrocemente, si chiede e si implora un aiuto, si cercano disperatamente un sostegno e una mano che aprano un barlume di speranza e un varco alla possibilità di una guarigione. Il soffrire è esorcizzato  dalla coscienza del paziente, specialmente se giovane e quando esso va a inibire progressivamente le funzioni vitali e quelle volontarie (sclerosi multipla, SLA, morbo di Parkinson, cancro). Con alcune di tali patologie si può anche imparare a saper convivere, ma quanta forza di animo è richiesta e quanto è duro e difficile reggerla poi a lungo nel tempo, sapendo che non ci sono risposte risolutive! Certamente la distrazione, la pratica di qualche interesse, un po' di esercizio fisico o di fisioterapia, una briciola di fede, aiutano a dare un significato al dolore, ma alla fine questo rimane  e il soggetto è pienamente consapevole del suo stabile perdurare o, peggio, del suo continuo avanzare.
La coscienza di far soffrire. Generalmente la persona portatrice di un disturbo psicofisico è perlopiù ripiegata su se stessa, credendo che il mondo debba girare attorno a sé, perché si pensa che il proprio dolore sia l'unico e il più intollerabile possibile. Ma non è sempre così. Molti si rendono ben conto che soffrono e stanno facendo soffrire anche chi si ha vicini e questo complica e accresce ulteriormente il circolo vizioso del disagio, anche perché se da una parte il soggetto in questione soffre, dall'altra nei parenti o nei presenti possono sempre intervenire momenti di stanchezza, di sconforto e di svilimento e questi, purtroppo, sono, anche se involontariamente, visibili o almeno percepibili dall'individuo sofferente. A questo punto nell'animo del paziente può prefigurarsi un duplice interrogativo: perché non chiedere di farla finita invocando l'intervento di terzi o perché non smettere di soffrire e di far soffrire adottando una decisione personale autonoma (suicidio, lasciarsi lentamente morire con il rifiutare cibo e assistenza)?
Il fatto è che una simile scelta ritenuta definitiva non si prospetta essere propriamente tale, anche se al soggetto interessato è ben chiaro il suo stato d'animo: "Non è giusto che per colpa mia soffrano anche persone innocenti". Non si può sostenere che il sopprimere la vita o l'autosoppressione della stessa sia la soluzione ottimale né sempre qualificabile come altruista, anzi. Rimorsi e sofferenze ulteriori per l'insorgere di sensi di colpa postumi potrebbero farsi strada cupamente nel tempo in chi sopravvive.
Come si può facilmente notare, qui confliggono due elementi contrapposti: il diritto a non soffrire e il dovere a non far soffrire. In questi casi, considerato anche il frequente e desolante stato di solitudine e di abbandono in cui vengono a trovarsi le famiglie, io credo che l'esperienza del dolore sia una grande scuola di vita e solo un'interazione amorosa fra le persone interessate può aiutare a vivere una presenza di disagio oggettivo trasformandola in grande e generoso amore sublimato. Solo che occorrono tanta forza, tanta fede e soprattutto un maggiore e più sensibile impegno da parte delle istituzioni a sostenere di più le persone anche sul piano economico (quante di esse sono costrette a lasciare il lavoro per assistere  i propri cari!), una più capillare solidarietà tra le famiglie, una teologia e una pastorale religiosa diocesana e nazionale più attente a capire e a lenire il dolore, un più diffuso recupero dell'etica del rispetto per la vita propria e per quella degli altri.
La parabola del buon Samaritano si presenta qui quanto mai attuale. Un gesto di amore sincero, sereno, discreto e silenzioso, specialmente se prolungato, potrebbe contribuire a far soffrire di meno i pazienti senza che in essi appaiano pericolosi sensi di colpa, sosterrebbe fortemente chi li assiste, cambierebbe il clima della oggettiva sofferenza in momenti di intensità affettiva e magari di crescita in umanità. In fondo si è tutti pellegrini verso Altre Realtà: darsi fraternamente la mano per raggiungerle è il più nobile, misterioso  e meritorio  atto di carità, di verità e di senso che si possa dare al comune vivere. Ma quanta apertura di mente e di cuore ciò richiede! Mutare l'apparente perdita (salute e tranquillità) in occasione preziosa di conoscenza e di salvezza per sé e per gli altri è il più alto gesto elaborativo di una fede umana e religiosa: questa è la speranza, ma è anche il significato che bisognerebbe restituire al mondo parallelo della sofferenza. L'amore, in questo campo, ha compiuto e compie miracoli: risvegli da coma profondo grazie a stimoli amorevoli, figli con tetraparesi spastica condotti da mamme-coraggio alla laurea (il giovane scienziato di Catania Fulvio Frisone), disabili divenuti artisti e sportivi, la giovane scrittrice Rosanna Benzi vissuta per anni in un polmone d'acciaio (famoso il suo libro Girotondo in una stanza), ecc. L'amore attiva enormemente il cervello, rafforza le difese immunitarie e pone in moto le più impensabili e straordinarie energie.
La bellezza, insieme alla fatica del vivere, si misura anche da questo sapersi proiettare al di là degli umani comprensibili schemi mentali, alzando con più acutezza e coraggio gli occhi verso orizzonti nei quali la paziente e serena accettazione di sé e delle proprie condizioni sollecita la nascita e lo sviluppo di forze interiori tali da illuminare sia il senso del personale percorso di vita che quello degli altri che vivono accanto a chi soffre: non è detto che non si possa crescere anche così, anzi. Forse il dolore, come la verità, ha un ruolo di segno nella storia individuale e collettiva ed è molto simile alla pioggia che pulisce o al fuoco, che, pur bruciando, meglio di ogni altro mezzo purifica e raffina l'animo di ognuno spronandolo a selezionare  con più  chiara intelligenza ciò che veramente conta dalle futili scorie da scartare.
Padre Pio e Giovanni Paolo II, ben note icone viventi del Crocifisso,  unitamente a tanti altri anonimi ammalati che popolano i nostri ospedali, in questo hanno avuto e hanno da insegnare molto di più con il loro dignitoso e ammirevole silenzio che non con le loro parole seminate  in tempi di fisico benessere!
                                            (Da Il Giornale dei Misteri, maggio 2010)
 

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