Pagina 3 di 4
Integrazione universitaria e
sociale
Premesso, come recita la Legge n.104 del '92, che occorre
"garantire il pieno rispetto della dignità umana e i diritti di libertà e
autonomia e promuovere la piena integrazione nella famiglia, nella scuola, nel
lavoro e nella società" e premesso anche che tutto ciò non si può realizzare
senza adeguati finanziamenti, le strategie concrete da attivare perché tale
integrazione possa dirsi seria e reale prevedono la predisposizione di una serie
di iniziative sia a livello di istruzione universitaria che nel tessuto
sociale:
Università. Molto ci sarebbe da fare in questo
settore per favorire l'effettivo esercizio dell'accesso da parte dello studente
in situazione di handicap. Innanzitutto bisognerebbe eliminare le barriere
architettoniche che ancora ci sono e anche vistose, specialmente se si osserva
che molte sedi di Istituti e di Dipartimenti sono allocate in vecchi e
fatiscenti appartamenti d'occasione. Si pensa ai grandi lavori pubblici: alla
creazione di strutture edilizie più decorose per gli studi superiori perché non
si presta la dovuta attenzione? Le Università, inoltre, andrebbero fornite di
laboratori più moderni e adeguatamente attrezzati, di strumentazioni didattiche
particolari e di sussidi pertinenti, come le singole forme di handicap
richiedono: computer con i quali i muti possano comunicare, una biblioteca
fornita almeno dei testi fondamentali in linguaggio Braille, sistemi di
amplificazione dei suoni più soddisfacenti, impianti di illuminazione adatti
agli ipovedenti, suppellettili accessibili ai paraplegici, spazi sufficienti per
chi ha problemi di deambulazione,ecc. A tutto questo andrebbe aggiunta la
presenza di personale di sostegno, che per alcune patologie, come per esempio
per la sordità, si rende indispensabile per una mediazione minima dei contenuti
del sapere trasmessi in aula, come anche si rende necessario rivedere l'entità
della tassazione, gli orari dei colloqui con i docenti, le modalità di accesso
ai vari servizi (segreteria, uffici...) e agli esami che per questi soggetti
andrebbero ritagliati meglio su misura delle loro esigenze.
Mi rendo ben
conto che la realtà universitaria, lenta e fluida com'è, non è organizzata così,
se spesso è carente anche quanto normalmente richiesto per quelli che patologie
particolari non presentano (laboratori, strumenti di ricerca, ecc.). In teoria
le leggi prevedono tutto ciò, ma la situazione di precarietà di tante sedi
universitarie e, diciamo anche spesso per il loro malgoverno, la mancanza di
progettualità a più vasto e più umano respiro impediscono una concreta risposta
alla domanda posta dalla diversità, che quasi sempre, purtroppo, rimane senza
riscontro. Se poi a questo si va ad aggiungere il sovraffollamento
caratterizzante non pochi Atenei il discorso si complica e probabilmente al
portatore di handicap, nei fatti, il diritto sacrosanto all'istruzione superiore
verrà irrevocabilmente negato. Eppure basterebbero un po' di buona volontà, un
utilizzo più accorto e oculato delle risorse, un minimo di sensibilità
lungimirante per far sì che ogni studente, specialmente quello più svantaggiato,
possa trovare nell'Università un luogo di giusta e serena accoglienza dei suoi
bisogni. Ma sarà così? Qualche dubbio è lecito nutrire fino a quando le
preoccupazioni principali saranno rivolte più ai problemi legati alle carriere
personali o alla competizione puramente quantitativa fra i vari Atenei che non
alla qualità e diversificazione dell'offerta culturale e alla creazione di più
vivibili ed efficienti oasi universitarie. Non dico poi che alcune Università, e
in esse non pochi docenti, più che essere la soluzione del disagio, ne
costituiscono invece troppe volte la causa: quante vite di studenti sono
spezzate e bloccate da chi non sa neanche cosa sia essere uomo, maestro di vita,
professore e professore universitario! La mia esperienza in questi ambienti e la
professione di psicologo mi pongono di fronte a tante squisite persone per
umanità e scienza, ma talora mi costringono anche a vergognarmi di trovarmi
dinanzi a tanti frustrati e nevrotici, tendenti a scaricare su molte giovani
speranze la loro nullità umana e professionale con un carico enorme di
responsabilità sui tanti futuri spenti per sempre. Comunque voglio essere un
ottimista e spero che siano solo delle eccezioni.
Società.
Più complesso si presenta il discorso per quanto riguarda l'integrazione
sociale. Qui diventa eminentemente politico, legislativo e, perché no, anche
educativo. Il problema, oltre che nell'accettazione e nel rispetto da parte di
una comunità, si pone soprattutto a livello di lavoro, dove le resistenze si
rivelano più evidenti. Poche aziende, se non quasi nessuna, sembrano essere ben
disposte ad assumere un portatore di handicap e per motivi, sotto certi aspetti,
forse anche comprensibili, se vengono a mancare agevolazioni fiscali per ogni
assunzione di disabile. È vero che la Legge italiana n. 104 del '92 prevede
all'art. 18 la possibilità di finanziamenti regionali sia agli Enti che
organizzano corsi di formazione per portatori di handicap che agli stessi
interessati, ma è anche visibile la constatazione che un aiuto concreto a chi
poi nei fatti dovrebbe assumere è assolutamente inesistente. Come un'impresa o
una qualunque azienda potrebbero accollarsi il rischio di una simile incombenza,
dalla quale non è esclusa anche un'assunzione di responsabilità? La stessa
Legge, inoltre, prevede l'istituzione di Centri di Formazione Professionale e il
Collocamento obbligatorio per i portatori di handicap (art. 17 e 19), come anche
nell'art. 20 prescrive che per gli Esami di Stato per l'esercizio della libera
professione ci siano per i disabili tempi aggiuntivi, precedenza
nell'assegnazione di sede, rimozione di ostacoli che impediscono attività
sportive, turistiche e ricreative, trasporti nei luoghi di lavoro o di studio,
riserve di alloggi, aiuti fiscali, ma il problema, così affrontato, riguarda
solo o prevalentemente il lavoro nel pubblico impiego. E nel privato, che poi
dovrebbe essere quello da porre veramente in grado di offrire opportunità reali,
perché più diffuso e ramificato nel territorio? Qui non si dice niente e la
questione rimane drammaticamente aperta. Occorrerebbe, allora, rivedere tutta
l'impostazione del mercato del lavoro, che preveda sì flessibilità, ma anche una
maggiore e migliore sensibilità verso i più deboli, come sono i soggetti
disabili. Una più saggia e razionale politica amministrativa e finanziaria da
parte degli Enti Locali, dal momento che in molte scelte si agisce già in regime
di autonomia, dovrebbe programmare, anche a causa dei tagli sulle risorse, non
solo il risparmio sul superfluo e sull'inutile o la revisione della vecchia
assistenza di un tempo (non è questa che il disabile vuole o chiede), ma
soprattutto imparare a saper prefigurare alcune concrete possibilità di
intervento perché al portatore di handicap siano consentite reali occasioni di
lavoro: un'integrazione senza quest'ultimo è solo un parlare a vuoto. Ciò
naturalmente implica la presenza di una rappresentanza politica capace di creare
e di gestire una simile complessa azione di solidarietà: di essa, però, in giro
se ne vede ben poca.
|