Dalle omelie di P.Matteo su S.Tommaso Apostolo
Fra le tante omelie di P. Matteo
da Agnone, riportate nel Fasciculus Myrrae, sempre ricche di profonda conoscenza
teologica, biblica, filosofica e storica ma soprattutto permeate da una sincera
"caritas" verso Dio, quelle che mi sembrano maggiormente rispondenti alla
sensibilità dell'uomo moderno sono le due (ciascuna divisa in due parti)
pronunciate in occasione della festività dell'Apostolo S.Tommaso (3 luglio). Non
conosciamo né la data precisa di stesura né il luogo ove furono predicate dal
pulpito: sappiamo soltanto che si estendono per ben 16 lunghe e fitte pagine del
Fasciculus (ff. 222-238).
S. Tommaso è l'emblema e il simbolo delle
contraddizioni e delle incertezze dell'uomo d'oggi, e forse non solo di questi.
"Se non vedo, non credo" è il teorema o l'equazione sui quali si poggia la
modernità. A partire da Galilei fino ai nuovi scienziati, in special modo a
filosofi come K. Popper, tutto sembra fondarsi sulla sperimentabilità, e quindi
verificabilità con la falsificabilità, di un asserto per poterne accettare la
sua eventuale "verità". Il principio agostiniano "Credo ut intellegam" o
"Intellego ut credam" viene praticamente scisso in due: la scienza è una cosa e
segue le sue leggi, la Fede un'altra ed è conseguente a un atto che prescinde
dalla razionalità. In realtà, però, pensando anche all'Enciclica di Giovanni
Paolo II "Fides et Ratio", le cose non starebbero proprio così: dagli "indizi"
della scienza, perché tali sono le sue conclusioni, si può risalire a una
lettura più complessa e completa del reale, cioè alla Fede. Questa operazione,
però, tipica della intuizione richiede e implica una grande onestà e apertura
mentale. Il pre-giudizio, cioè, non conduce da nessuna parte, ma solo al dubbio
e, spesso, allo scetticismo e al pessimismo più cupo.
Come P. Matteo affronta
questo problema così esistenzialmente impegnativo e dalla cui soluzione e
risposta dipendono l'equilibrio di una persona e il senso di una vita?
In
questo seguirò fedelmente l'analisi che ne fa il santo frate, quando parla
dell'atteggiamento mentale di S. Tommaso.
"Stavasi il misero et infelice
Thomaso...a guisa di salamandra, che fra tanti carboni infocati, non pur non
abbruggiava, ma ne anche riscaldava...A guisa d'aspe sordo che pertinacemente
ottura le orecchie...A guisa d' huomo preso da grave et profondo letargo"(f. 222
r). Immagini fantasiose, ma che ben rendono la condizione d'interna inquietudine
del povero Apostolo. Eppure "se non lo toccava si privava del maggior contento
che si possa desiderare in terra"(f. 222 r).
Gesù appare a Tommaso e lo
invita a porre le mani nelle sue piaghe. L'esclamazione dell'Apostolo è:
"Dominus meus et Deus meus" (Gv 20,28), come a volerGli dire "il mio intelletto
era nelle tenebre dell'infedeltà, voi l'havete illuminato"(f. 222 r).
"Questa confessione", commenta P. Matteo "è la sostanza et vita del
christianesimo", perché "la giustizia christiana consiste in credere, credendo
sperare, credendo et sperando amare, credendo, sperando, amando ben oprare" (f.
222 r). La Fede, quindi, continua sempre P. Matteo, richiama due cose: "l'ogetto
del credere et il lume col quale si crede" (f. 222 r). L'oggetto è "Christo
Dio", il lume "Christo huomo" e, con altre parole, il primo si identifica con il
"fine", il secondo con il "mezzo" (f. 222 r).
Due sono le
caratteristiche proprie dell'operare del Cristo, ispiratore del "credere":
"Primieramente aprire le porte del cielo...Secondariamente, fare che gli angeli
santi ascendano et discendano sopra il Figlio dell' Huomo"(f. 223 v). Precisa P.
Matteo: "Se non fosse Christo Dio, tu non potresti mai essere felice, se non
fosse Christo huomo, tu non havresti modo di giungere alla felicità...Partendoti
da questo fine t'inquieti, lasciando questo mezzo t'inganni" (f. 224 r).
Divinità e umanità, quindi, sono interconnesse: la prima, invisibile e
inattingibile, è rivelata nello spazio-tempo dalla seconda, quest'ultima fa
intuire e amare la prima.
A questo punto, dal momento che la Fede è
preliminare alle altre due virtù teologali della Speranza e della Carità, P.
Matteo introduce una sottile distinzione: "La carità non può essere perfetta
senza due cose: il termine, che è la cosa amata, et il motivo et incentivo
d'amore...La cosa da amare è Christo Dio...Il motivo et incentivo è Christo
Huomo...Togli la divinità di Christo, non trovi che gustare. Togli l'Humanità di
Christo, non vedi che cosa devi gustare", come a dire "il colore di Christo è la
natura humana, il sapore, la sostanza è la natura divina" (f. 224 r).
P.
Matteo, però, va oltre nelle sue riflessioni: "Un ogetto si suol amare per tre
raggioni: per la bontà, per la bellezza, per l'utilità" e più distintamente "tre
cose moveno ad amare: l'amore, la somiglianza, la dimestichezza"(ff. 224 r-225
v). Tutto ciò si realizza nel personale quotidiano rapporto col "fine ultimo",
ma trascendente, del nostro operare che è Dio.
L'amore, però, è fatto di
azioni e perché queste siano positive "due cose sono necessarie: saper ciò che
si deve fare, et saper in che modo si deve fare" (f. 226 r). A questo
interrogativo P. Matteo risponde che " Christo-Dio è il legislatore che
t'insegna il ben vivere: Christo-huomo è il modello et l'esemplare della buona
vita" (f. 226 r). Purtroppo, non sempre è così o, come amaramente osserva il
santo cappuccino, "a che misero stato è ridotto il christianesimo!" (f. 227 v),
quando perde di vista la "centralità" della "persona Gesù".
S. Tommaso, dopo
l'apparizione del Signore Risorto, seppe cambiar vita e questo fa dire a P.
Matteo: "O Thomaso, o Thomaso, così facesti tu, perché eri tutto di Christo" (f.
229 v).
Per ritornare al problema della Fede, P. Matteo approfondisce il
suo discorso: "L'huomo è dotato di due potenze rationali: intelletto et voluntà"
(f. 230 r). Attivandole bene non si può non pervenire al "credere". Infatti "la
fede è il fondamento, la carità è la consumatione. Amare senza credere è
impossibile, credere senza amare è pauco" (f. 230 r). In questo stretto rapporto
tra fede e carità P. Matteo dimostra di essere un fine psicologo, oltre che un
attento teologo. Riferendosi a Dio aggiunge: "La fede mostra Dio all'intelletto,
la carità l'abbraccia con affetto. La fede lo vede, la carità lo possiede"" (f.
230 r). È questa una magnifica sintesi teologica della "Fides quaerens
intellectum" e viceversa.
Quando Gesù, allora, dice a S. Tommaso: "Noli esse
incredulus sed fidelis" (Gv 20, 27) è come se volesse fargli intendere, come
sottolinea P. Matteo, che la Fede si poggia su "gran raggione", perché la
rivelazione divina ha più canali attraverso i quali si dischiude: la natura e la
fede. E questo è accessibile a tutti, o, come conclude P. Matteo "è commune,
perché non ogn'uno può dar opra agli studi o per difetto dell'ingegno, o per
infirmità, o per necessità della vita, o per la cura della casa, ma ogn'uno può
credere"(f. 238 r).
Che aggiungere di più a questo grande quadro del
"cammino di fede" così ben delineato dal cappuccino di Agnone?
Mi permetto
ora solo qualche considerazione. Da quanto detto sopra viene fuori una
personalità, quella di P. Matteo, non solo fornita e dotata di una solida
preparazione dottrinale e di una grande saggezza umana, ma soprattutto piena di
un immenso amore verso Cristo considerato come "centro" e "senso ultimo" dello
scopo dell'esperienza terrena. È in Lui che il dubbio, connaturale alla limitata
intelligenza umana, trova una risposta convincente, perché è nella vicenda
storica di Gesù che l'Invisibile si è reso visibile, come a dire la Fede si
incontra con la certezza dei fatti e, radicandosi in essi, diventa così più
consistente. Trovo questo messaggio di P. Matteo quanto mai attuale: l'uomo
moderno, metafora vivente dell'antico Tommaso, ha bisogno di "vedere" e di
"toccare" quasi con mano per poter credere. E oggi non mancano i "segni" per
farlo: da Lourdes, a Fatima, a P. Pio, ai tanti eventi straordinari e
inspiegabili, l'intelligenza, quella sgombra dalla presunzione, non può che
trovare "indizi" fecondi di verità. Tutto sta nel saperli "collegare" in un
discorso unitario, coerente e completo che non può non condurre all'emissione
dell'atto di Fede. Naturalmente ciò sollecita un cambiamento radicale di vita e
una visione e pratica profetica oltre che una presenza-testimonianza del proprio
essere e vivere nel mondo, in "questo" mondo. Alla fine tutto riconduce all'Uno,
fonte e sintesi di luce e di pace, risposta piena ed esauriente alla drammatica
molteplicità delle nostre domande. Un simile Uno non può che essere e situarsi
al di là dell'uomo (niente spiega se stesso), anche se ne affianca il percorso,
e costui è Dio, il Padre che ci attende nella Terra Promessa.
In tutto
questo complesso discorso P. Matteo si rivela, a distanza di secoli, un grande
maestro di umanità, ma soprattutto un acuto conoscitore di coscienze e una
fedele epifania del divino.
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