Se la Fede è morta e la Ragione è cieca...
A tutti è fin troppo noto che l'attuale periodo storico che l'umanità sta attraversando non si caratterizza certamente come uno dei migliori. Gli eventi hanno acquisito un'accelerazione tale che spesso riesce difficile seguirli e vederli con chiarezza sia nelle loro cause che nei loro effetti. L'economia globalizzata sta producendo prevalentemente precarietà e incertezza. La politica balbetta, sa di vuoto e non riesce più a progettare un futuro, non dico sicuro, ma almeno accettabile. Il rispetto per la vita è diventato un optional sovente trascurato e molte volte anche calpestato. I problemi legati alla fame, alla sete e alla prevenzione e cura della salute, specialmente presso le popolazioni del Terzo Mondo, sono lasciati in mezzo al guado della non soluzione (AIDS, ecc.). Le guerre e le cosiddette pulizie etniche, con il loro devastante e tragico teatro di lutti e di rovine, imperversano senza criterio, con tutto un apparato malavitoso di affari posto in atto che sembra non avere più limiti decenti. I bambini e i giovani, possibili "sentinelle del mattino" (Giovanni Paolo II), sono invece letteralmente abbandonati al loro destino. C'è sì un qualche spiraglio di speranza tenuto aperto da anime generose e profetiche, ma è ancora molto angusto e, forse, meno male che esiste per conservare ancora acceso un frammento di fiducia, l'unico che sta salvando il mondo.

In tutto questo bailamme anche la fede religiosa sembra non avere più quella spinta efficace per scuotere le coscienze, come la scienza, con le sue implicazioni tecnologiche, appare essere, nonostante i notevoli progressi, non più strumento di liberazione, ma spesso di vera e propria schiavitù, generando bisogni indotti di dubbio valore. Questi ultimi due aspetti meritano di essere analizzati con un po' di attenzione.

La fede. Il "credere" fa parte della vita di relazione di ogni giorno. Se si dovesse accettare per vero solo ciò che i nostri sensi percepiscono paradossalmente non si vivrebbe più, perché si sarebbe tutti chiusi, muti e servi del proprio spazio-tempo, cioè isole e monadi che vagano galleggiando sperdute nell'oceano del conoscere. La parola e in genere il linguaggio sono fatti per essere prima ascoltati, poi vagliati criticamente nella loro fondatezza e infine accettati e resi propri in vista di un percorso che conduca a un eventuale cambiamento nell'agire. Questo si chiama aver fede, cioè fiducia, dando credito a chi parla: così accade per un figlio nei confronti dei genitori, di un alunno verso i propri insegnanti, di una qualsiasi intelligenza verso la scoperta scientifica, ecc. Quando chi propone un messaggio si situa al di là del visibile, allora si è nel campo della religione e della "pietas", cioè di quell'atteggiamento mentale che si affida nelle mani dell'Invisibile per farsi da esso guidare. Naturalmente questo processo, che è squisitamente interiore, nella storia si concretizza nell'adesione a una istanza o a una istituzione che in qualche modo dice di averne la rappresentanza: saranno una Chiesa, una moschea, un tempio buddista o indù con tutte le loro gerarchie non importa, ma la sostanza è questa. Ovviamente tali istituzioni dovrebbero essere autorevoli e, se non vicinissime, almeno il più possibile non lontane da ciò e da chi intendono mostrarsi come il loro canale comunicativo. In realtà, però, cosa accade? È sotto gli occhi di tutti che, fatte salve rare eccezioni, di autentica fede che sappia di totale abbandono fra le braccia di Dio, lasciandosi illuminare dalla Sua Verità, si può parlare ben poco. Il più delle volte ci si ferma al ritualismo delle esteriorità, della ripetibilità e della frammentarietà. Ci si ricorda di Dio solo in alcuni momenti, quando pure ciò avviene, e prevalentemente per chiederGli qualcosa di utile e di immediato. Una fede che dia un "senso" continuo e duraturo all'esistere, impregnandolo delle sue scelte più profonde, sembra permeare solo alcune coscienze, quelle cioè che, dopo un lungo travaglio di ricerca interna, riescono a rafforzarsi, a volare alto sulla mediocrità dominante e a leggere le cose e gli eventi con altri occhi, che poi conferiscono un colore e una qualità al vivere quotidiano. Si nota subito la differenza che passa fra una "parola" che affonda le sue radici nell'eterno e un'altra che si offre solo come una pallida e sbiadita immagine dello stesso, perché non sinceramente sentita sin nelle fibre più intime del proprio essere: anche quest'ultima troppo spesso è entrata a far parte delle manifestazioni della odierna società della finzione, dove tutto diventa mezzo finalizzato al raggiungimento di un precario e non sempre nobile scopo terreno. Le istituzioni religiose, pur necessarie come elementi di mediazione nella storia, quante volte, invece di essere "segni" dell'Altro, non si sono trasformate e non si mutano tuttora, nell'immaginario collettivo, in emblema di potere e di dominio sulle persone! Troppo frequentemente si presentano come autoreferenza di sé, cioè inautentiche, perciò inefficaci e comunque non incisive e coraggiose nell'essere testimonianza e profezia del Diverso! In questi casi, allora, la fede diventa più espressione di paura che di vita, più interessata esaltazione di croce che luce di resurrezione, più orpello di spettacolarità che di spiritualità. È chiaro che una fede del genere non è più "sale della terra" ma essa stessa terra senza speranza. Non a caso oggi serpeggia nostalgicamente una diffusa "fame di sacro", che, non trovando canalizzazioni adeguate, non rare volte tende a inseguire simboli, mode e riti, che, illudendo, promettono salvezze impossibili (New Age, satanismo, ecc.). E di questi i giovani sono perlopiù vittime più o meno inconsapevoli, perché, pur onesti, si trovano impreparati a saper distinguere il vero dal falso, il bene dal male, ciò che conta da ciò che è opinabile se acriticamente assorbito. L'anagrafe dei credenti andrebbe, allora, decisamente ridimensionata nel numero: essa serve a stabilire solo una quantità e una visibilità, non certamente sempre una validità del credere, a far prevalere i vari fondamentalismi di opposte colorazioni che troppo spesso, nel presunto nome di Dio, deturpano e uccidono l'immagine dei Suoi figli con striscianti e sanguinose guerre di religione, che non trovano alcuna giustificazione né morale né politica, ma solo o prevalentemente economica e di supremazia. Tutto questo sarà pur fede, ma morta e senza sapore, cioè sostanzialmente non Fede, ma sottile e condizionante mistificazione.

La ragione. È proprio della natura umana la tendenza al conoscere, al porsi domande e cercare risposte. A questa sono deputate varie funzioni: sensazione, percezione, elaborazione dei dati, atto intellettivo. Il risultato finale di un tale procedimento dovrebbe essere quello di attingere una parte della realtà e così, in qualche modo, contribuire a renderla accessibile e come elemento integrante del proprio patrimonio interiore. In questa maniera è come se l'universo ritrovasse una propria identità e unitarietà che nell'uomo viene ad assumere una sorta di autocoscienza della sua esistenza. Ovviamente questo processo presuppone che si abbiano ben chiare alcune osservazioni: la provvisorietà del dato appreso, la sua possibile evoluzione nel tempo, la limitatezza nelle conclusioni, l'autocorrettività delle ipotesi esplicative prospettate, l'umiltà nel relativizzare le varie affermazioni. Oggettivamente la ricerca scientifica così va avanti, a differenza del cosiddetto scientismo di stampo ottocentesco che tutto vorrebbe assolutizzare, riducendo la verità al solo fatto sperimentabile. E invece cosa spesso accade? Avviene che la scoperta scientifica, in sé un evento sempre positivo e quindi da accettare come una conquista del sapere, troppo frequentemente accende tanto l'emotività, e l'ingordigia da far perdere alla ragione il concreto contatto con il reale e allora si tende a volare in alto nel cielo di un dogmatismo preconcetto senza darsi pensiero che tutto è ancora lacunoso e che quello che si è trovato non è altro che un piccolo brandello di verità e non la Verità. D'altro canto è giusto andare sempre più "oltre", ma non al punto di clonare o produrre pericolosi mostri teorici e pratici della natura (ingegneria genetica): qui non sempre si fa funzionare, com'è nella fisica quantistica, il principio di indeterminazione e di saggia valutazione, che non ha tanto una connotazione etica quanto una di responsabilità umana e scientifica. L'euforia, specialmente poi quando si vanno a esaminare le applicazioni della scienza sia nella tecnologia che nell'uso militare della stessa (energia nucleare, chimica), allora raggiunge tali livelli di palese cecità da poter generare morte e distruzione. Il progresso scientifico teoricamente non può avere limiti imposti dall'esterno, ma solo dal suo interno, e comunque dovrebbe avere sempre come scopo quello di salvare la vita delle persone e delle cose e favorire lo sviluppo e la difesa della natura, della pace e della solidarietà fra gli esseri umani. La scienza, purtroppo, non sempre ha piena consapevolezza dei suoi metodi e non può sconfinare in altri ambiti che non le sono propri: una eventuale contaminazione, se intesa come dialogo, sarebbe auspicabile, ma se praticata come commistione sconsiderata non può che originare confusione.

Venendo a una conclusione, c'è da dire che in buona parte oggi predominano una fede perlopiù agonica e smorta e senza un lungimirante mordente e una scienza che, diventata autosufficiente e sovente eretta a ideologia per trasformarsi poi in egemonia, si presenta il più delle volte cieca di fronte ai tanti altri campi di conoscenza, che ovviamente prescindono dal suo modello metodologico e dalle sue leggi (teologia, psicologia, psicologia di frontiera, economia, filosofia, estetica, ecc.). Sicché alla fine viene fuori un quadro piuttosto povero di vitalità, spesso causa di reciproche incomprensioni e intolleranze e comunque privo di nuove possibilità di arricchimento conoscitivo per il futuro: una fede ridotta a solo fatto devozionale, mediatico o, peggio, folkloristico è vuota di anima e di contenuti, quindi né trasparente né operativamente utile né chiara e coerente testimonianza del Messaggio, come, peraltro, una scienza arroccata nelle sue discutibili certezze dimentica la sua reale umile funzione di dover essere una distaccata osservatrice di un soggetto/oggetto che è in ogni caso sempre in continua evoluzione. Quello che manca, per evitare un pensiero debole, è un sereno, onesto, dialettico e libero confronto tra Fede e Ragione nella loro sostanza: questo sì che sarebbe un bene per tutti.

Da una fede viva e più vera, dunque, ci sarebbe da attendere la trasformazione in meglio del mondo e delle sue condizioni e da una scienza aperta, vigile e più collaborativa una visione più ampia, sobria e completa dell'universo e dei significati in esso nascosti. Purtroppo non è sempre così, ma tutto sembra come il salto del canguro, perciò pieno di contrasti, conflitti, dubbi e contraddizioni. Eppure dovrebbe, e potrebbe, essere altrimenti: se fosse così, la vita allora sarebbe meno faticosa di quella che spesso è.
(Da Il Giornale dei Misteri, marzo 2008)