Si era allora appena usciti da
una guerra disastrosa con un'Italia prostrata in ginocchio oltre che per le
tante distruzioni subite e i suoi morti, anche per la sua economia ridotta a
pezzi, che, specialmente al Sud, era incentrata sull'agricoltura, con un
latifondo, spesso incolto, molto esteso e una classe bracciantile che chiedeva
solo un po' di lavoro per sostenere la
propria famiglia, come suol dirsi, alla giornata. Ricordo ancora quegli anni
quando al tramonto tornavano a gruppi dai campi, come uno sciame di alveare, i
contadini con la zappa sulle spalle, il tascapane e quei loro volti bruciati dal sole, mentre a
sera nella piazza del mio paesino, S.Paolo di Civitate, sostavano per trovare
un "padrone" che li "ingaggiasse" per il giorno seguente: le condizioni di vita di quella povera gente,
per giunta formata da nuclei familiari con un cospicuo numero di figli, erano
molto precarie e ai limiti della sussistenza, situazione, peraltro, aggravata dalla mancanza di un'adeguata
assistenza sanitaria. Molti bambini morivano allora per una banale tonsillite
(in dialetto: "i ‘ngín ‘gànn"). Forti, però,
erano i legami affettivi che caratterizzavano quella realtà ,
comunemente definita di "cafoni",
"terrazzani", "bifolchi" o "iarzón". Chi non ricorda la famosa
sceneggiata napoletana " 'O zappatór"? Ad un certo punto il padre contadino,
davanti all'alta borghesia riunita in un salotto, con orgoglio dice al figlio aiutato a diventare avvocato e
che quasi si vergogna delle sue origini: "'O zappatór ‘n ‘c scord ‘a mamma
soij".
Il 18 aprile 1948 si svolsero le
prime elezioni politiche del secondo dopoguerra: il clima era acceso e non si
risparmiavano i colpi né dall'una né
dall'altra parte degli schieramenti in lizza. I protagonisti indubbiamente
furono De Gasperi, Togliatti, Nenni e il grande sindacalista, nostro
conterraneo, Giuseppe Di Vittorio (eletto il 4 giugno dell'anno successivo,
1949, Segretario della Federazione Mondiale dei Sindacati), un personaggio
amato e venerato da quelle folle che assiepavano i comizi con tanto di
bandiere, altoparlanti a tromba e slogan. Ricordo ancora quando cantavano il
ritornello: "'A zù, ‘a zù, ‘a zù, a De Gasp'r nu vulím cchiù, vulím a De
Vittorij e Togliatt' e nent' cchiù". A noi oggi può sembrare un linguaggio o un
fraseggio colorito e, forse, probabilmente lo è. Ma quanti proclami di
battaglia ancora più pittoreschi, per non dire grotteschi, si diffondono nel presente "per terra, per
mare e per cielo"!
I risultati delle elezioni
sancirono la maggioranza assoluta per la Democrazia Cristiana con la
conseguente sconfitta del Fronte Popolare (PCI-PSI). Ebbe così inizio il
processo di ricostruzione del Paese, favorito anche dal Piano Marshall (già
avviato nel 1947), con una massa di
disoccupati che raggiungeva il numero di 1.700.000 unità.
Con un mondo che, con la guerra
fredda, si andava spaccando in due blocchi contrapposti, la Sinistra, con la
complicità anche di una burocrazia rimasta dopo l'amnistia del Ministro della
Giustizia Togliatti (22 giugno 1946) quella del periodo fascista, venne
emarginata dal governo del Paese e il risanamento economico dell'Italia
sostanzialmente imboccava una duplice direzione: l'introduzione del capitalismo
(bassi salari e grandi profitti) e, con la creazione da parte del Ministro
degli Interni dell'epoca Mario Scelba di un corpo speciale antisommossa di
polizia chiamato la "Celere", la repressione sistematica delle lotte
bracciantili e operaie. D'altronde di quest'ultima fu una chiara testimonianza
l' "affaire Giuliano" in Sicilia (con decine di assassinii perpetrati contro
sindacalisti e dirigenti politici: si ricordi la strage di Portella delle
Ginestre del 1 maggio 1947) e gli eccidi di contadini, come, per stare alla
sola Puglia, quelli di Andria, Candela, Torremaggiore e San Severo. Le
disposizioni scelbiane nei confronti dei dirigenti delle varie Camere del
Lavoro erano severissime.
Nell'autunno del 1949 e agli
inizi del '50 in ogni parte d'Italia si effettuarono occupazioni di terre
incolte. Come si poteva sfamare una famiglia con un fabbisogno mensile di
60.000 lire quando il salario medio si aggirava appena sulle 20.000 per i
braccianti e 30.000 per gli operai? La durezza di Scelba veniva contestata
dalla stessa destra economica, che, tramite Il Corriere della Sera, non poche
volte ne chiese la destituzione. Del
resto le proposte di riforma agraria avanzate in quegli anni erano quanto meno
ambigue, perché in sostanza tendevano tutte a tenere in piedi ancora una volta
il latifondo invece di favorire la
piccola proprietà contadina. Non a caso anche nella maggioranza di governo si
erano create delle fratture: il gruppo della sinistra democristiana (formata
dai dossettiani La Pira, Fanfani, Lazzati, Moro, Zaccagnini e
naturalmente Giuseppe Dossetti)
reclamava, per esempio, una maggiore attenzione al mondo del lavoro. Durante il Congresso della CGIL (4-9 ottobre
1949) fu proposto il "Piano del lavoro" , che, dal nome dei due massimi
dirigenti di quel sindacato, sarà poi noto
come "Piano Di Vittorio-Foa". In realtà la riforma fondiaria che seguì
nel 1950 in tre riprese (il 12 maggio con la "Legge Sila" per la Calabria,
estesa poi alla Puglia, Basilicata, Fucino, Maremma e Delta padano; il 10
agosto con l'istituzione della Cassa per il Mezzogiorno; il 6 ottobre con la
"legge stralcio", in forza della quale venivano espropriati 760.000 ettari e
assegnati poi a 113.000 contadini) confermò i dubbi, tant'è che molte di quelle
quote di terra concesse ai contadini (6 ettari non potevano bastare a nuclei
familiari di 6-7 persone) furono poi rivendute, perché ciascuno andò a trovare,
emigrando, una migliore fortuna nelle
industrie del Nord Italia o all'estero.
Nel frattempo, fra queste
incertezze politiche e sociali, si susseguivano i fatti di sangue contro
braccianti e operai (già verificatisi, del resto, il 7 marzo 1947 a Messina),
come il 30 ottobre 1949 a Melissa (Catanzaro) con due morti, il 29 novembre
1949 a Torremaggiore con due morti, il 14 dicembre dello stesso anno a
Montescaglioso (Matera) con un morto e il 9 gennaio 1950 a Modena con sei morti
e cinquanta feriti.
Il movimento di lotta,
denominato "Terra e Libertà", si sviluppò anche nel Veneto e in Abruzzo (contro
l'amministrazione Torlonia). Fu proprio qui, e precisamente a Lentella
(Chieti), che il 21 marzo 1950, durante una manifestazione di contadini,
venivano uccisi dalla polizia due disoccupati. Lo sdegno, allora, raggiunse il
suo culmine tanto che per il giorno dopo, il 22 marzo, venne proclamato dalla
CGIL lo sciopero generale, fissato dalle ore 6 alle 18: un diritto questo
sancito e garantito dall'art. 40 della Costituzione, entrata in vigore, come si
sa, dal 1 gennaio 1948.
San Severo, "città rossa" (non
si dimentichi che qui si svolse il 19 settembre 1896 nella casa dell'avv. Luigi
Mele, uno dei fondatori del Fascio Operaio e del Circolo Socialista, il primo Congresso Socialista Provinciale
alla presenza di Andrea Costa e Leone Mucci, personalità simbolo del riscatto
dei poveri, era morto in ammirevole e
francescana povertà già dal 18 dicembre 1946), non si sottrasse a questa ondata
di indignazione.
Allora (1949-1950) nel Consiglio Comunale sedevano
21 consiglieri del PCI, 15 Democristiani, 2 Socialisti e 2 di Democrazia
Cittadina (una lista civica di ispirazione liberale). Nella Città in quegli
anni era diffusa e si respirava palpabilmente una profonda e inquieta aria di
malessere. Il bracciante, quando pure riusciva a trovare un lavoro al mercato,
riscuoteva una retribuzione giornaliera di appena 740 lire, che, nel periodo
della vendemmia, saliva a 1200: salario assolutamente insufficiente a nutrire
una famiglia, se si considera che un chilogrammo di pane costava allora 100
lire e uno di carne 900. E' da notare,
inoltre, come fanno rilevare Assunta
Facchini e Raffaele Iacovino (Leone Mucci, Capone Editore, Cavallino di Lecce
1989, pp. 331-332), che il 55% dell'agro sanseverese (17.046 ettari su 32.514)
era in mano a pochi e che i contadini poveri (quelli cioè che possedevano da
0.5 a 5 ettari) e i braccianti nullatenenti (il proletariato agricolo) costituivano
il 63% della popolazione attiva della Città.
Di quello che avvenne il 22
marzo e il giorno successivo, il 23, è stata redatta un'ampia e ben documentata
ricostruzione storica da parte del carissimo amico, scomparso l' 8 febbraio
1999, il dr. Raffaele Iacovino (23 marzo 1950.
San Severo si ribella, Teti Editore, Milano 1977, con prefazione di Lelio Basso): ad essa , per
buona parte, mi rifarò in questa breve rievocazione e dico subito che concordo
pienamente con le sue analisi di fondo.
Bisogna dare atto a questo illustre concittadino, già Sindaco di San
Severo e acuto studioso dei fenomeni
sociali e politici di essere stato molto obiettivo, aderente alle più sottili
sfumature della realtà e soprattutto, senza con ciò peccare in alcun modo di partigianeria,
umanamente e sensibilmente vicino e partecipe al bisogno di liberazione di un
popolo. Significativa, ancora a questo proposito, è la testimonianza del figlio
di Carmine Cannelonga, l'on. Severino Cannelonga, apparsa su La Gazzetta di San
Severo dell'11 marzo 2000.
Il 22 marzo, dunque, anche la
Camera del Lavoro di San Severo aderì in massa allo sciopero generale. In
Piazza Plebiscito (oggi Piazza Allegato) alle ore 9, dinanzi a un'enorme folla
di persone, intervenne brevemente ma con
molta incisività il Segretario della
Camera del Lavoro Carmine Cannelonga (uomo schietto ma prudente, che
pagò con il confino la sincerità della sua fede politica; di lui hanno parlato
Assunta Facchini e Raffaele Iacovino in Proletariato Agricolo e Movimento Bracciantile
in Capitanata- 1861/1950, Lacaita Editore, Manduria 1982), invitando però i
presenti all'autocontrollo e al senso di responsabilità. Da parte di tutti si richiese
il corteo, anche se non autorizzato. Questo subito dopo si svolse
ordinato e senza incidenti lungo le vie della Città e fu il più imponente mai
visto fino ad allora e anche dopo: la polizia, per prudenza, si tenne in
disparte. Verso mezzogiorno sembrò tutto concluso, anche se lo sciopero
formalmente proseguiva fino alle ore 18.
Nel pomeriggio, frattanto,
circolò la notizia che durante un'analoga manifestazione a Parma si erano
verificati incidenti gravi, durante i quali era stato ucciso un operaio. Nella
serata del 22 arrivarono da Foggia due funzionari di partito, Martella del PCI
e Bellitti del PSI. Si recarono nella
sede della CGIL e sollecitarono a
prolungare lo sciopero anche per il giorno successivo, il 23. I dirigenti
locali, specialmente Carmine Cannelonga e Matteo D'Onofrio (Segretario Amministrativo
del PCI di San Severo), avevano esternato perplessità e dissenso per il timore
che potesse accadere qualcosa di irreparabile. Del resto il sen. Luigi Allegato
(Segretario Provinciale del PCI) era assente perché a Roma e quello comunale
Leonardo D'Errico si trovava fuori in viaggio di nozze. Il PCI di San Severo
era allora organizzato in quattro sezioni, ciascuna delle quali in cellule con
a capo un proprio capocellula. Alla Camera del Lavoro seguì un'accesa
discussione sfociata poi in un pubblico comizio, durante il quale, prendendo atto
delle decisioni foggiane, Carmine Cannelonga ( erano le ore 20) esortò tutti a
proseguire l'azione di protesta per il 23. Dopo di lui parlò calorosamente ma
civilmente l'avv. Erminio Colaneri (sindacalista del PSI e Direttore della
Biblioteca Comunale). Tra la folla erano presenti anche due agenti in borghese
(G. Bisceglie e Sebastiano Morgante). C'è da dire subito che non vi era alcun
piano preordinato né tantomeno un disegno insurrezionale. Tutto nasceva dalla
rabbia, dalla irritazione per altre vittime innocenti cadute in nome di un
tozzo di pane: un misto di frustrazione, di spontaneismo, di esasperazione, di
impulsi più o meno inconsci a lungo repressi, di delusione per un diritto e una
dignità non rispettati.
Durante la notte del 23 marzo si
cercò di preparare il tutto, predisponendo verso le 4 dei posti di blocco (senza, però,
ostruzioni o sbarramenti di strade) lungo le vie di accesso alla Città, e
precisamente alle Porta Foggia, Castelnuovo, Apricena, San Marco,
Torremaggiore, alla strada del Fortore e a quella del Boschetto di Lembo. Il
Commissario locale di P.S., il dr. Gaetano Ricciardi, vista l'esplosività della
situazione venutasi a creare per l'ordine pubblico, chiese rinforzi alla
Questura di Foggia, da dove partirono 70 agenti al comando di Gioacchino
Ventura.
Dalle 5 alle 7, su ordine del
Commissario dr. Ricciardi e del Capitano della locale Stazione dei Carabinieri
dr. Mollo (coadiuvati, in questo, da alcuni cittadini muniti di bracciale, si diceva militanti del
MSI), si provvide a smantellare i posti di blocco (formati ciascuno da 15-20
uomini) e si arrestarono i più resistenti (circa 17 persone). Il
"picchettaggio", in casi di sciopero, era allora un fatto acquisito nella
pratica sindacale e questo sin dagli inizi del ‘900: durante esso si faceva uso
anche di bastoni chiamati "sagghiocca".
L'atmosfera, intanto, si andava
surriscaldando. Guidati da Michele Pistillo, da parte di giovani e ragazzi in
bicicletta venivano distribuiti volantini in ogni angolo della Città. Furono
ricostituiti i posti di blocco, mentre le vie di San Severo andavano
riempiendosi di braccianti, donne e bambini e s'imponeva ai negozi di chiudere
i battenti. Inutile dire che la tensione, alla notizia degli arresti, si era
gradualmente alzata sempre più di tono. Verso le 7.30 un gruppo di scioperanti
ordinò la chiusura della macelleria di Francesco Schingo (in Largo San
Giovanni), nella quale tre agenti di P.S. stavano effettuando la loro spesa
(Raffaele Crudele, Giovanni Ardemagni e
Michele Angiolillo). Questi ultimi cercarono di impedirne la chiusura,
ma finirono con l'essere aggrediti e disarmati. Uno di questi, allora, e
precisamente l'Ardemagni, svincolandosi dalla presa della gente, entrò nella macelleria, afferrò un coltello e lo lanciò sulla folla,
ferendo tre lavoratori. Un fremito attraversò l'animo di quelle persone, ma non
si andò oltre. Non molto distante vi era
la caserma dei carabinieri. Nel frattempo sopraggiunsero altri agenti di P.S. ,
che tentarono di prelevare i loro malcapitati colleghi. Ad essi, però, non fu
concessa alcuna reazione, anzi vennero costretti a retrocedere. Intanto
cominciavano a udirsi i primi spari dai tetti con la conseguente paura sia per
chi stava in strada sia per chi decise
di rimanere in casa. Quattro, fra poliziotti, agenti di custodia e un vigile
urbano furono disarmati.
Cannelonga e Ferrara, ai quali
si aggregò l'assessore Giuseppe Cellini,
intuendo il peggio, allo scopo di
concordare uno sblocco della situazione ed evitare così prevedibili drammatiche conseguenze si recarono alla caserma dei carabinieri : qui giunti,
però, per tutta risposta vennero arrestati e pestati. I fatti ormai stavano
sfuggendo al controllo di ogni ragionevolezza. Alcuni scioperanti assalirono le
armerie di Matteo Sansone e Cosimo Santoro, dalle quali sottrassero fucili,
pistole e cartucce. La sede del MSI venne devastata. Nel frattempo, mentre si
andavano rafforzando i posti di blocco con carri rovesciati, per le strade si
eressero barricate (con tronchi d'albero, lamiere...), soprattutto in Corso
Gramsci, Piazza Tondi, Via Mercantile, Via Daunia, Via de Cesare, tutte
presidiate da lavoratori armati di fucili, pistole, mazze, pietre e zappe.
Polizia e carabinieri si asserragliarono
presso la locale caserma. Intanto da Foggia niente ancora rinforzi fino
alle ore 10.30 e, quando finalmente giunsero, furono costretti a fermarsi a
Porta Foggia. Nel frattempo le forze dell'ordine tentarono di rompere l'assedio
dei dimostranti, ma inutilmente. Alcuni agenti di P.S. entrarono lo stesso in Città, ma attraverso la campagna.
Dopo mezzogiorno, sempre da
Foggia, al comando del Capitano Giuseppe Montemagno dell' Esercito e del dr.
Celentano della Questura, arrivò, fermandosi all'altezza del macello, un'autocolonna composta da una Batteria del
14° Reggimento Artiglieri (150 uomini), da agenti di P.S. (150 uomini) e da una
Sezione di carri armati (nel numero di 4). A questo punto non fu difficile
rimuovere gli sbarramenti e fiaccare così la resistenza degli scioperanti.
Rapidamente l'autocolonna si diresse verso le sedi del PCI (allora in Corso
Gramsci) e della CGIL: qui trovarono e
arrestarono una settantina di persone (tranne i ragazzi), vennero messi a
soqquadro i locali, rinvenuti e sequestrati denaro, qualche fucile, tre bombe e
alcune mazze. Certamente si sparava da alcune parti, ma non era una guerra:
quanti morti si sarebbero contati se fosse stato così. Gli arrestati, nel
frattempo, scortati dai carri armati furono trasferiti al carcere di Lucera. A
sera, sul tardi, ritornò finalmente la calma.
Il triste bilancio di quella
terribile giornata fu di un morto (Michele Di Nunzio, di 33 anni, padre di 4
bambini) e 40 feriti (tra i quali 25 lavoratori e un ragazzino di 10 anni).
Il giorno dopo, il 24 marzo, il
sen. Allegato si recò in Prefettura con i nomi dei militanti del MSI in
possesso di armi, indicando in essi i veri provocatori della situazione.
Naturalmente, salvando la buona fede delle persone e rispettando il loro relativo
punto di vista, la verità storica si presenta ed è sempre un po' più complessa
e articolata di quanto una lettura semplificata possa enfatizzarne alcuni suoi
aspetti.
I gravi incidenti di San Severo
furono riportati con grande rilievo da
tutti gli organi di stampa: ciascuno, però, li presentò a suo modo, interpretandoli secondo le proprie tendenze ideologiche. Uno
dei pochi giudizi obiettivi venne espresso dal
The New York Times del 24 marzo 1950: "La Provincia di Foggia è una
delle più povere d'Italia. È preminentemente agricola, i suoi abitanti in
maggioranza contadini senza terra e privi di ogni mezzo, vivono in condizioni
precarie e questa è una delle ragioni delle continue agitazioni in questa parte d'Italia".
Ogni movimento di massa,
compresa una rivoluzione, non è mai una casualità. Alla sua base non c'è solo o
principalmente un'esigenza ideologica; spesso, o quasi sempre, è un insieme di
bisogni primari insoddisfatti , come la fame, a provocare lotte, ribellioni e
disarticolazioni nel tessuto sociale, specialmente se il contesto è percepito
come di oppressione.. Nessuno, di per sé, ama o cerca la morte o il disordine.
Del resto è accaduto sempre così nel tempo: dallo scontro fra patrizi e plebei
nell'antica Roma, all'insurrezione degli schiavi contro il potere dispotico
romano, all'assalto al forno delle Grucce (descritto dal Manzoni ne I Promessi
Sposi) fino alle rivoluzioni di questi ultimi secoli e a quelle dei nostri
giorni. D'altronde, se si pone attenzione, è quasi sempre una guerra tra
poveri: anche poliziotti e carabinieri erano e sono, perlopiù, figli di poveri.
In nome del loro pane sparano per
obbedire a degli ordini contro quelli che potrebbero essere l'immagine dei loro padri, delle loro madri e dei loro fratelli. Queste sono le
contraddizioni della vita!
Ritornando alle vicende
sanseveresi, non poche furono le reazioni anche in Parlamento: fioccarono le
interrogazioni al Ministro degli Interni da parte dei senatori comunisti
Allegato e Rolfi e dei socialisti Tamburrano e Lanzetta, come, d'altro canto, i
democristiani Genco, de Meo, Bavaro, Caccuri, Latanza, Resta, Giuntoli e Troisi
chiesero quali provvedimenti sarebbero stati adottati nei confronti dei
responsabili dei fatti sanguinosi.
I senatori Lanzetta, Tamburrano
e Capacchione dichiararono sull'
"Avanti!" del 26 marzo: "Come mai verso le ore 12 nella sede del PCI gli agenti
di P.S. non trovano armi e nel tardo pomeriggio, dopo l'arrivo del Questore,
son venute fuori le armi? Chi le ha messe? Dove è andato a finire il denaro
conservato nei cassetti della sede? Perché anche il socialista avv. Erminio Colaneri
è stato arrestato, dal momento che il suo fu un intervento solamente civile e
corretto?" A queste domande non seguirono risposte.
I dirigenti locali più coinvolti
nella vicenda erano Carmine Cannelonga, Matteo D'Onofrio, Antonio Berardi
(Segretario della IV sezione del PCI) e l'avv. Erminio Colaneri.
Il 3 aprile 1950 il rapporto dei
carabinieri fu inviato di competenza , per la fase istruttoria, alla Procura di
Foggia. L'accusa era grave e l'art. 284 del Codice Penale, in simili casi,
prevedeva: "Chiunque promuove un'insurrezione armata contro i poteri dello
Stato è punito con l'ergastolo e, se l'insurrezione avviene, con la morte...Chi
vi partecipa con la reclusione da 3 a 15 anni, chi la dirige con la morte". La
pena capitale, in realtà, già era stata abolita con il Decreto Legge L.T. n.224
del 10 agosto 1924.
I quattro dirigenti su indicati
rientravano fra quelli punibili in base all'art. 284 su menzionato.
Dalla Procura di Foggia venne
confermata l'ipotesi di reato di insurrezione armata e il tutto fu trasmesso,
il 20 aprile 1951, alla Sezione Istruttoria della Corte d'Appello di Bari. Il
Pubblico Ministero di quest'ultima cercò di far cambiare il supposto capo
d'imputazione in un altro, in quello
cioè di "concorso in violenza e resistenza alla forza pubblica" (art. 337 e 339
del C.P.). La Corte di Bari, in quella stessa data, confermò la tesi
dell'insurrezione armata, respingendo così la posizione del Pubblico Ministero.
In vista del processo, le conclusioni furono inviate alla Corte d'Assise di Lucera
il 10 dicembre 1951. Presidente di questa era il dr. Merla, Giudice "a latere"
il dr. Tateo, Cancelliere Parracino: a questi si affiancarono 10 giudici
popolari, molti dei quali di Foggia. Il 20 dicembre 1951 Giuseppe Di Vittorio
spedì un telegramma di solidarietà a Carmine Cannelonga.
Il collegio di difesa era
composto da 19 avvocati, fra i quali Lelio Basso, Fausto Gullo, Tamburrano,
Ernesto Mandes, Ernesto Lufino, Biagio Di Giovine.
I denunciati erano 184, mentre
gli imputati 110 (dei quali 98 già detenuti): fra questi 17 donne, 6 liberi e 6
latitanti.
Il dibattimento in aula fu molto
acceso.
Da una parte i testimoni
dell'accusa cadevano continuamente in contraddizione, arrivando con Salvatore
Colapietra a dichiarare addirittura che "fu costretto dalla polizia a dire
nella fase istruttoria quello che lei voleva dicesse". Dall'esame dei testi
venivano, inoltre, fuori accuse pesanti e precise alla polizia , quali "mi
minacciarono d'impiccarmi"(D'Errico), come anche il Capitano dr. Mollo ammise
che il Cannelonga venne a proporgli una
"distensione" e lui la rifiutò.
Dall'altro lato la difesa,
con Basso e Tamburrano, sostenne
brillantemente la tesi che si trattava di uno sciopero politico ed economico
senza intenti insurrezionali e che i poteri dello Stato erano tre (Legislativo,
Esecutivo e Giurisdizionale), contro i quali nessuna ribellione si era
verificata. La polizia, secondo gli avvocati, non era un potere dello
Stato, ma una semplice sua "funzione":
una sottigliezza giuridica degna dei più
raffinati "principi del foro".
Dal canto suo il Pubblico
Ministero dr. Nicola Damiani era convinto che
ci si trovava di fronte a un "preordinamento all'insurrezione", perciò
chiese 10 anni di reclusione per Cannelonga, 9 per D'Onofrio, 6 per Colaneri,
per tutti gli altri 427 anni con una media di 5 anni per imputato e
l'assoluzione per 19 persone, tra le quali Soccorsa Sementino (moglie di
Allegato), Elvira Suriani (moglie di Cannelonga), Armida Salza (moglie di D'Onofrio) e Isabella
Vegliato (la portabandiera rossa).
Il 5 aprile 1952, alle 3 del
mattino, dopo 62 udienze e 17 ore di discussione in Camera di Consiglio, la
Corte emetteva la sentenza di assoluzione per Cannelonga, Colaneri, D'Onofrio e
Berardi; 49 venivano condannati a pene
varie per reati minori; rimanevano in carcere 12 imputati su 110. In seguito
all'appello inoltrato dal Pubblico
Ministero, la Corte di Bari, presieduta dal dr. Antonio Gentile, il 1 marzo 1957 in sostanza confermava il
verdetto della Corte d'Assise di Lucera del 5 aprile.
Usciti dal carcere lucerino, gli
ex detenuti assolti, preceduti da motociclisti appositamente giunti da San
Severo, arrivarono in Città con due
pullman e furono accolti da una folla entusiasta e festante.
L'esperienza del carcere, pur se
vissuta fra letture intense e conversazioni vivaci fra compagni di partito, non
poté non provocare, come è facile intuire,
gravi disagi alle famiglie degli arrestati, con figli ospitati qua e là
presso persone amiche.
Così terminò quella triste
vicenda. Giustamente, nell'intervista rilasciata a Raffaele Iacovino (riportata
nel libro dello stesso "23 marzo 1950.
San Severo si ribella", p. 75), Matteo
D'Onofrio precisava: "Non eravamo
eroi, ma solo povera gente fra gente
come noi". Io aggiungerei: sarà pur vero che non sono stati degli eroi, ma
persone coraggiose, coerenti e dignitose
che credevano in ciò che facevano, subendone le conseguenze, sì, ed è per questo che ad esse, molte delle
quali ormai scomparse, va oggi il nostro doveroso e grato omaggio della mente e
del cuore, nella speranza che questa Città ricordi in modo più tangibile le
giuste motivazioni che sono state alla base delle loro rivendicazioni,
tributando a questi concittadini l'onore che meritano. Non a caso e non a torto
L'Unità del 23 gennaio 1952 ebbe a definire l'intera faccenda "una delle più
impressionanti montature poliziesche che la storia del Mezzogiorno ricordi".
Nelle elezioni amministrative
del 25 maggio 1952 a San Severo il PCI conseguì
il 43,10% dei suffragi e la maggioranza assoluta dei seggi in Consiglio
Comunale con 23 consiglieri su 40, mentre 3 andarono al PSI, 4 al MSI, 4 ai Liberali e ai
Monarchici e 6 alla DC. A Sindaco venne eletto l'on. Filippo Pelosi e in
Giunta, fra gli altri, Carmine Cannelonga, Michele Agrusti e Antonio Cologno.
In Consiglio Comunale sedevano personaggi di tutto rilievo e rispetto come, per
ricordarne solo alcuni, per il PCI il
sen. Luigi Allegato, Emilio Amoroso, Michele Pistillo, Matteo D'Onofrio,
Michele Fantasia; per la DC l'on.
Raffaele Recca, Pasquale Iantoschi, Gaetano Piscitelli, Genoveffo Tata; per il
PSI Ernesto Mandes, Michele Santarelli; per il MSI Antonio La Monaca; per i
Monarchici Saverio De Girolamo. Altri
tempi, altre sensibilità, altri uomini!
Certamente la violenza, da
qualunque parte provenga, non può e non deve avere alcuna legittimazione né
morale né politica, perciò è sempre da condannare: in una democrazia i problemi
vanno risolti con il confronto, semmai anche serrato e duro, ma sempre nel
rispetto delle norme di civiltà. Ma nei confronti di un popolo povero e
affamato si può mai reagire con la sola arma della repressione, senza tentare
di dare seriamente una risposta alle sue domande, in termini di concretezza e
senza tempi lunghi, dal momento che la fame non aspetta? Non ha, forse, anch'esso
una sua dignità e un suo diritto alla vita? Specialmente al Sud, non ha
conservato, lungo il corso dei secoli, una pazienza quasi biblica, sempre però
pronta a scoppiare e a deflagrare? Tutto questo, sicuramente, non giustifica eventuali intemperanze, che
inevitabilmente in simili occasioni si commettono ( e allora furono commesse),
ma non va sottovalutato il clima sociale di tensione nel quale poi un evento,
seppur increscioso, data l'insondabilità dell'animo umano e come in una
incontrollabile reazione psicologica a catena, viene necessariamente a
svilupparsi. E' da notare, e non è un aspetto marginale, che fra il popolo
sanseverese in quel giorno in
sciopero non vi erano solo comunisti e socialisti, ma
anche molti iscritti alla Democrazia Cristiana e alcuni lavoratori, come quello
ucciso a Melissa, militanti dello
stesso MSI. Il colore, quando si tratta di giustizia, come si può notare,
assolutamente non c'entra.
E' risaputo che Togliatti non
approvò i fatti di San Severo, perché non aiutavano ad accreditare l'immagine
democratica del PCI, ma altrettanto dimostrato è che in Città non esisteva
alcun arsenale segreto di armi in mano ai comunisti. Questa ipotesi fantasiosa
inventata e fatta circolare ad arte e interessatamente da alcuni è una autentica
distorsione e mistificazione della storia oltre che un'offesa e, direi anche,
un insulto alla onorabilità di questa Città e dei suoi abitanti: se fosse
risultata verità, la carneficina sarebbe stata incalcolabile nelle sue vittime.
Escludendo, dunque, la connotazione di uno scontro fra legalità e illegalità
(ci sarebbe molto da discutere sul significato di "legalità" e su quello di
"illegalità"), qui invece si è di fronte a un movimento istintivo, magari
impulsivo, comunque di massa e soprattutto davanti al dramma e alla coscienza
di gente umiliata da sempre senza una prospettiva di speranza che lottava per la propria e l'altrui sopravvivenza: un
fatto che va capito e ben contestualizzato nel tempo, se ad esso parteciparono
persone di ogni età che andava dai 62
anni dell'avv. Colaneri ai 19 di Leonardo Beato e Bianco Custodero fino agli
appena 17 di Mario Castiglione. D'altronde un popolo senza una guida
istituzionale va incontro a una eclissi di certezza: dopo la sospensione dalla
carica di Sindaco del prof. Emilio Amoroso (Decreto Prefettizio del 17.10.1948,
n.3777), il Sindaco supplente, l'Assessore anziano Francesco Paolo Visconti,
certamente un buon uomo ma non altrettanto buon politico, quel giorno del 23
marzo preferì andare a caccia invece di stare, com'era suo dovere, in mezzo
alla sua gente in lotta, non fosse stato altro che per calmarne gli animi più
tesi. Ma tant'è, se le cose sono andate avanti così.
Per concludere, propenderei
a non essere tanto d'accordo con
l'affermazione del pur famoso scrittore tedesco
Johann Wolfang Goethe: "Scrivere la storia è un modo come un altro per
liberarsi dal passato". Una rimozione del ricordo che, a mio giudizio,
suonerebbe troppo sbrigativa e, perché
no, anche comoda! Illuminante e più
precisa mi sembra invece quella del grande oratore latino Cicerone (De oratore,
II, 9): "La storia è testimone del tempo, luce della verità, vita della
memoria, maestra di vita".
Oggi molte cose sono cambiate: i
DS sono al governo, la polizia è stata smilitarizzata e sindacalizzata, il
benessere economico si è un po' più diffuso fra le varie fasce sociali ( anche
se ci sono ancora molti poveri), alcuni diritti fondamentali sono un fatto
ormai acquisito alla legge e alla prassi
(Statuto dei Lavoratori, contrattazione e concertazione, assistenza
sanitaria...), diverse importanti iniziative sono state avviate (Patti
territoriali, Contratti d'area...), la democrazia (nonostante le molte grottesche
demonizzazioni e un bipolarismo zoppo) è nel complesso ben salda, anche se rimangono non pochi
problemi ancora da risolvere, non da ultime le risposte da dare alle grandi
sfide lanciate dall'alta tecnologia (Internet) e dalla New Economy (=Nuova
Economia, quella cioè che viaggia in Rete).
Anche in questa Città è mutato
molto: a Palazzo Celestini vi è da circa sei anni una Amministrazione di
centrodestra, si sono moltiplicate scuole e iniziative socio-assistenziali , si
è costruita qualche struttura di pubblico interesse, l'area urbana e quella
produttiva si sono estese in ogni direzione, ma all'apparente benessere e
all'indubbio abbellimento di alcune sue zone fanno anche tristemente riscontro
un preoccupante degrado del vivere, la diffusione della criminalità e della
droga, l'abbandono dei giovani a se stessi, la mancanza di un tranquillo futuro
per la scarsezza di lavoro (si è a oltre 12.000 disoccupati), la frantumazione
della rappresentanza politica con la conseguente disaffezione alla
partecipazione e al voto, la poca incisività della cultura ridotta non poche
volte a elitarismi da salotto, la sostanziale emarginazione di ogni
progettualità oltre che delle energie migliori.
Per l'avvenire mi auguro
che non ci siano più la necessità o le
premesse per il verificarsi o il ripetersi di fatti come quelli accaduti a San
Severo il 23 marzo 1950. Questo elementare messaggio dovrebbe insegnare la
Storia ai giovani e ai meno giovani. Ma sarà così? In questa società
contemporanea caratterizzata dalla cosiddetta globalizzazione, dove un mercato
senza regole diventa ogni giorno sempre di più iperliberismo selvaggio e dove i
ricchi saranno sempre più ricchi e i poveri condannati a essere sempre più
poveri, scoppieranno fatalmente e di continuo tante Seattle, se i governanti
non penseranno realmente e seriamente a governare con giustizia e onestà gli
interessi solidali di tutti, specialmente dei più deboli, e non a difendere
primariamente, come fin troppo spesso avviene, il proprio "particulare", come
ricordava il Guicciardini. Tramontate le ideologie (anche se di tanto in tanto
qualcuno tenta di farne risorgere ceneri e fantasmi), resta l'uomo con i suoi
valori e le sue numerose domande
quotidiane: e questi non ha un colore o un'etichetta che ne possa segnare una
distinzione, ma è un abitante di questa terra e del nostro comune destino che
ha diritto al suo spazio di libertà, di rispetto e di sicurezza. Spero che la
Storia trasmetta a tutti una maggiore saggezza, che i partiti e i cristiani,
per me che lo sono, sappiano fare con più coraggio e una più visibile presenza
profetica una reale scelta di solidarietà e che soprattutto si sia più figli di
una intelligenza lungimirante che non di una stupida quanto anacronistica e conservatrice miopia di parte.
Credo di non esagerare se si
pensa che il 23 marzo 1950 rimane e rimarrà, nella coscienza e nella memoria di
tutti, una pagina epica scritta
nell'immaginario collettivo e negli annali della storia di questa Città.
A nota riporto il testo della
canzone composta per quella circostanza:
"Il
23 marzo che giorno di coraggio,
uomini e donne siamo stati coraggiosi.
Alle 10 eravamo in sezione
e gli scelbini salivano dal balcone,
col mitra ci hanno fatto alzare le mani,
di parole siamo stati insultati.
Alle 10 il maresciallo e i suoi uomini
ci hanno aggrediti, ma non siamo spaventati,
perché loro lo sanno, siamo coraggiosi.
Ma la lotta continuerà e bandiera rossa
trionferà.
Con autoblindo e carrarmati ci hanno
trasportati
e alle carceri di Lucera ci hanno portati.
Siamo stati consegnati al presidente.
Noi tutti coraggiosi siamo stati spontanei:
signor presidente, siamo innocenti,
sono stati i fascisti a infamarci.
Ma la lotta continuerà e bandiera rossa trionferà".