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23 marzo 1950: Una pagina epica nella storia di San Severo PDF Stampa E-mail
A cinquanta anni di distanza, tentare una riflessione serena e pacata sui fatti accaduti a San Severo il 23 marzo 1950 significa rifarsi brevemente anche alla situazione socio-politica del tempo.
Di questo vicenda ha scrito ampiamente Raffaele Iacovino nel suo ben documentato saggio "23 marzo 1950. San Severo si ribella"


Si era allora appena usciti da una guerra disastrosa con un'Italia prostrata in ginocchio oltre che per le tante distruzioni subite e i suoi morti, anche per la sua economia ridotta a pezzi, che, specialmente al Sud, era incentrata sull'agricoltura, con un latifondo, spesso incolto, molto esteso e una classe bracciantile che chiedeva solo un po' di lavoro per sostenere la propria famiglia, come suol dirsi, alla giornata. Ricordo ancora quegli anni quando al tramonto tornavano a gruppi dai campi, come uno sciame di alveare, i contadini con la zappa sulle spalle, il tascapane e quei loro volti bruciati dal sole, mentre a sera nella piazza del mio paesino, S.Paolo di Civitate, sostavano per trovare un "padrone" che li "ingaggiasse" per il giorno seguente: le condizioni di vita di quella povera gente, per giunta formata da nuclei familiari con un cospicuo numero di figli, erano molto precarie e ai limiti della sussistenza, situazione, peraltro, aggravata dalla mancanza di un'adeguata assistenza sanitaria. Molti bambini morivano allora per una banale tonsillite (in dialetto: "i ‘ngín ‘gànn"). Forti, però, erano i legami affettivi che caratterizzavano quella realtà , comunemente definita di "cafoni", "terrazzani", "bifolchi" o "iarzón". Chi non ricorda la famosa sceneggiata napoletana " 'O zappatór"? Ad un certo punto il padre contadino, davanti all'alta borghesia riunita in un salotto, con orgoglio dice al figlio aiutato a diventare avvocato e che quasi si vergogna delle sue origini: "'O zappatór ‘n ‘c scord ‘a mamma soij".

Il 18 aprile 1948 si svolsero le prime elezioni politiche del secondo dopoguerra: il clima era acceso e non si risparmiavano i colpi né dall'una né dall'altra parte degli schieramenti in lizza. I protagonisti indubbiamente furono De Gasperi, Togliatti, Nenni e il grande sindacalista, nostro conterraneo, Giuseppe Di Vittorio (eletto il 4 giugno dell'anno successivo, 1949, Segretario della Federazione Mondiale dei Sindacati), un personaggio amato e venerato da quelle folle che assiepavano i comizi con tanto di bandiere, altoparlanti a tromba e slogan. Ricordo ancora quando cantavano il ritornello: "'A zù, ‘a zù, ‘a zù, a De Gasp'r nu vulím cchiù, vulím a De Vittorij e Togliatt' e nent' cchiù". A noi oggi può sembrare un linguaggio o un fraseggio colorito e, forse, probabilmente lo è. Ma quanti proclami di battaglia ancora più pittoreschi, per non dire grotteschi, si diffondono nel presente "per terra, per mare e per cielo"!

I risultati delle elezioni sancirono la maggioranza assoluta per la Democrazia Cristiana con la conseguente sconfitta del Fronte Popolare (PCI-PSI). Ebbe così inizio il processo di ricostruzione del Paese, favorito anche dal Piano Marshall (già avviato nel 1947), con una massa di disoccupati che raggiungeva il numero di 1.700.000 unità.

Con un mondo che, con la guerra fredda, si andava spaccando in due blocchi contrapposti, la Sinistra, con la complicità anche di una burocrazia rimasta dopo l'amnistia del Ministro della Giustizia Togliatti (22 giugno 1946) quella del periodo fascista, venne emarginata dal governo del Paese e il risanamento economico dell'Italia sostanzialmente imboccava una duplice direzione: l'introduzione del capitalismo (bassi salari e grandi profitti) e, con la creazione da parte del Ministro degli Interni dell'epoca Mario Scelba di un corpo speciale antisommossa di polizia chiamato la "Celere", la repressione sistematica delle lotte bracciantili e operaie. D'altronde di quest'ultima fu una chiara testimonianza l' "affaire Giuliano" in Sicilia (con decine di assassinii perpetrati contro sindacalisti e dirigenti politici: si ricordi la strage di Portella delle Ginestre del 1 maggio 1947) e gli eccidi di contadini, come, per stare alla sola Puglia, quelli di Andria, Candela, Torremaggiore e San Severo. Le disposizioni scelbiane nei confronti dei dirigenti delle varie Camere del Lavoro erano severissime.

Nell'autunno del 1949 e agli inizi del '50 in ogni parte d'Italia si effettuarono occupazioni di terre incolte. Come si poteva sfamare una famiglia con un fabbisogno mensile di 60.000 lire quando il salario medio si aggirava appena sulle 20.000 per i braccianti e 30.000 per gli operai? La durezza di Scelba veniva contestata dalla stessa destra economica, che, tramite Il Corriere della Sera, non poche volte ne chiese la destituzione. Del resto le proposte di riforma agraria avanzate in quegli anni erano quanto meno ambigue, perché in sostanza tendevano tutte a tenere in piedi ancora una volta il latifondo invece di favorire la piccola proprietà contadina. Non a caso anche nella maggioranza di governo si erano create delle fratture: il gruppo della sinistra democristiana (formata dai dossettiani La Pira, Fanfani, Lazzati, Moro, Zaccagnini e naturalmente Giuseppe Dossetti) reclamava, per esempio, una maggiore attenzione al mondo del lavoro. Durante il Congresso della CGIL (4-9 ottobre 1949) fu proposto il "Piano del lavoro" , che, dal nome dei due massimi dirigenti di quel sindacato, sarà poi noto come "Piano Di Vittorio-Foa". In realtà la riforma fondiaria che seguì nel 1950 in tre riprese (il 12 maggio con la "Legge Sila" per la Calabria, estesa poi alla Puglia, Basilicata, Fucino, Maremma e Delta padano; il 10 agosto con l'istituzione della Cassa per il Mezzogiorno; il 6 ottobre con la "legge stralcio", in forza della quale venivano espropriati 760.000 ettari e assegnati poi a 113.000 contadini) confermò i dubbi, tant'è che molte di quelle quote di terra concesse ai contadini (6 ettari non potevano bastare a nuclei familiari di 6-7 persone) furono poi rivendute, perché ciascuno andò a trovare, emigrando, una migliore fortuna nelle industrie del Nord Italia o all'estero.

Nel frattempo, fra queste incertezze politiche e sociali, si susseguivano i fatti di sangue contro braccianti e operai (già verificatisi, del resto, il 7 marzo 1947 a Messina), come il 30 ottobre 1949 a Melissa (Catanzaro) con due morti, il 29 novembre 1949 a Torremaggiore con due morti, il 14 dicembre dello stesso anno a Montescaglioso (Matera) con un morto e il 9 gennaio 1950 a Modena con sei morti e cinquanta feriti.

Il movimento di lotta, denominato "Terra e Libertà", si sviluppò anche nel Veneto e in Abruzzo (contro l'amministrazione Torlonia). Fu proprio qui, e precisamente a Lentella (Chieti), che il 21 marzo 1950, durante una manifestazione di contadini, venivano uccisi dalla polizia due disoccupati. Lo sdegno, allora, raggiunse il suo culmine tanto che per il giorno dopo, il 22 marzo, venne proclamato dalla CGIL lo sciopero generale, fissato dalle ore 6 alle 18: un diritto questo sancito e garantito dall'art. 40 della Costituzione, entrata in vigore, come si sa, dal 1 gennaio 1948.

San Severo, "città rossa" (non si dimentichi che qui si svolse il 19 settembre 1896 nella casa dell'avv. Luigi Mele, uno dei fondatori del Fascio Operaio e del Circolo Socialista, il primo Congresso Socialista Provinciale alla presenza di Andrea Costa e Leone Mucci, personalità simbolo del riscatto dei poveri, era morto in ammirevole e francescana povertà già dal 18 dicembre 1946), non si sottrasse a questa ondata di indignazione.

Allora (1949-1950) nel Consiglio Comunale sedevano 21 consiglieri del PCI, 15 Democristiani, 2 Socialisti e 2 di Democrazia Cittadina (una lista civica di ispirazione liberale). Nella Città in quegli anni era diffusa e si respirava palpabilmente una profonda e inquieta aria di malessere. Il bracciante, quando pure riusciva a trovare un lavoro al mercato, riscuoteva una retribuzione giornaliera di appena 740 lire, che, nel periodo della vendemmia, saliva a 1200: salario assolutamente insufficiente a nutrire una famiglia, se si considera che un chilogrammo di pane costava allora 100 lire e uno di carne 900. E' da notare, inoltre, come fanno rilevare Assunta Facchini e Raffaele Iacovino (Leone Mucci, Capone Editore, Cavallino di Lecce 1989, pp. 331-332), che il 55% dell'agro sanseverese (17.046 ettari su 32.514) era in mano a pochi e che i contadini poveri (quelli cioè che possedevano da 0.5 a 5 ettari) e i braccianti nullatenenti (il proletariato agricolo) costituivano il 63% della popolazione attiva della Città.

Di quello che avvenne il 22 marzo e il giorno successivo, il 23, è stata redatta un'ampia e ben documentata ricostruzione storica da parte del carissimo amico, scomparso l' 8 febbraio 1999, il dr. Raffaele Iacovino (23 marzo 1950. San Severo si ribella, Teti Editore, Milano 1977, con prefazione di Lelio Basso): ad essa , per buona parte, mi rifarò in questa breve rievocazione e dico subito che concordo pienamente con le sue analisi di fondo. Bisogna dare atto a questo illustre concittadino, già Sindaco di San Severo e acuto studioso dei fenomeni sociali e politici di essere stato molto obiettivo, aderente alle più sottili sfumature della realtà e soprattutto, senza con ciò peccare in alcun modo di partigianeria, umanamente e sensibilmente vicino e partecipe al bisogno di liberazione di un popolo. Significativa, ancora a questo proposito, è la testimonianza del figlio di Carmine Cannelonga, l'on. Severino Cannelonga, apparsa su La Gazzetta di San Severo dell'11 marzo 2000.

Il 22 marzo, dunque, anche la Camera del Lavoro di San Severo aderì in massa allo sciopero generale. In Piazza Plebiscito (oggi Piazza Allegato) alle ore 9, dinanzi a un'enorme folla di persone, intervenne brevemente ma con molta incisività il Segretario della Camera del Lavoro Carmine Cannelonga (uomo schietto ma prudente, che pagò con il confino la sincerità della sua fede politica; di lui hanno parlato Assunta Facchini e Raffaele Iacovino in Proletariato Agricolo e Movimento Bracciantile in Capitanata- 1861/1950, Lacaita Editore, Manduria 1982), invitando però i presenti all'autocontrollo e al senso di responsabilità. Da parte di tutti si richiese il corteo, anche se non autorizzato. Questo subito dopo si svolse ordinato e senza incidenti lungo le vie della Città e fu il più imponente mai visto fino ad allora e anche dopo: la polizia, per prudenza, si tenne in disparte. Verso mezzogiorno sembrò tutto concluso, anche se lo sciopero formalmente proseguiva fino alle ore 18.

Nel pomeriggio, frattanto, circolò la notizia che durante un'analoga manifestazione a Parma si erano verificati incidenti gravi, durante i quali era stato ucciso un operaio. Nella serata del 22 arrivarono da Foggia due funzionari di partito, Martella del PCI e Bellitti del PSI. Si recarono nella sede della CGIL e sollecitarono a prolungare lo sciopero anche per il giorno successivo, il 23. I dirigenti locali, specialmente Carmine Cannelonga e Matteo D'Onofrio (Segretario Amministrativo del PCI di San Severo), avevano esternato perplessità e dissenso per il timore che potesse accadere qualcosa di irreparabile. Del resto il sen. Luigi Allegato (Segretario Provinciale del PCI) era assente perché a Roma e quello comunale Leonardo D'Errico si trovava fuori in viaggio di nozze. Il PCI di San Severo era allora organizzato in quattro sezioni, ciascuna delle quali in cellule con a capo un proprio capocellula. Alla Camera del Lavoro seguì un'accesa discussione sfociata poi in un pubblico comizio, durante il quale, prendendo atto delle decisioni foggiane, Carmine Cannelonga ( erano le ore 20) esortò tutti a proseguire l'azione di protesta per il 23. Dopo di lui parlò calorosamente ma civilmente l'avv. Erminio Colaneri (sindacalista del PSI e Direttore della Biblioteca Comunale). Tra la folla erano presenti anche due agenti in borghese (G. Bisceglie e Sebastiano Morgante). C'è da dire subito che non vi era alcun piano preordinato né tantomeno un disegno insurrezionale. Tutto nasceva dalla rabbia, dalla irritazione per altre vittime innocenti cadute in nome di un tozzo di pane: un misto di frustrazione, di spontaneismo, di esasperazione, di impulsi più o meno inconsci a lungo repressi, di delusione per un diritto e una dignità non rispettati.

Durante la notte del 23 marzo si cercò di preparare il tutto, predisponendo verso le 4 dei posti di blocco (senza, però, ostruzioni o sbarramenti di strade) lungo le vie di accesso alla Città, e precisamente alle Porta Foggia, Castelnuovo, Apricena, San Marco, Torremaggiore, alla strada del Fortore e a quella del Boschetto di Lembo. Il Commissario locale di P.S., il dr. Gaetano Ricciardi, vista l'esplosività della situazione venutasi a creare per l'ordine pubblico, chiese rinforzi alla Questura di Foggia, da dove partirono 70 agenti al comando di Gioacchino Ventura.

Dalle 5 alle 7, su ordine del Commissario dr. Ricciardi e del Capitano della locale Stazione dei Carabinieri dr. Mollo (coadiuvati, in questo, da alcuni cittadini muniti di bracciale, si diceva militanti del MSI), si provvide a smantellare i posti di blocco (formati ciascuno da 15-20 uomini) e si arrestarono i più resistenti (circa 17 persone). Il "picchettaggio", in casi di sciopero, era allora un fatto acquisito nella pratica sindacale e questo sin dagli inizi del ‘900: durante esso si faceva uso anche di bastoni chiamati "sagghiocca".

L'atmosfera, intanto, si andava surriscaldando. Guidati da Michele Pistillo, da parte di giovani e ragazzi in bicicletta venivano distribuiti volantini in ogni angolo della Città. Furono ricostituiti i posti di blocco, mentre le vie di San Severo andavano riempiendosi di braccianti, donne e bambini e s'imponeva ai negozi di chiudere i battenti. Inutile dire che la tensione, alla notizia degli arresti, si era gradualmente alzata sempre più di tono. Verso le 7.30 un gruppo di scioperanti ordinò la chiusura della macelleria di Francesco Schingo (in Largo San Giovanni), nella quale tre agenti di P.S. stavano effettuando la loro spesa (Raffaele Crudele, Giovanni Ardemagni e Michele Angiolillo). Questi ultimi cercarono di impedirne la chiusura, ma finirono con l'essere aggrediti e disarmati. Uno di questi, allora, e precisamente l'Ardemagni, svincolandosi dalla presa della gente, entrò nella macelleria, afferrò un coltello e lo lanciò sulla folla, ferendo tre lavoratori. Un fremito attraversò l'animo di quelle persone, ma non si andò oltre. Non molto distante vi era la caserma dei carabinieri. Nel frattempo sopraggiunsero altri agenti di P.S. , che tentarono di prelevare i loro malcapitati colleghi. Ad essi, però, non fu concessa alcuna reazione, anzi vennero costretti a retrocedere. Intanto cominciavano a udirsi i primi spari dai tetti con la conseguente paura sia per chi stava in strada sia per chi decise di rimanere in casa. Quattro, fra poliziotti, agenti di custodia e un vigile urbano furono disarmati.

Cannelonga e Ferrara, ai quali si aggregò l'assessore Giuseppe Cellini, intuendo il peggio, allo scopo di concordare uno sblocco della situazione ed evitare così prevedibili drammatiche conseguenze si recarono alla caserma dei carabinieri : qui giunti, però, per tutta risposta vennero arrestati e pestati. I fatti ormai stavano sfuggendo al controllo di ogni ragionevolezza. Alcuni scioperanti assalirono le armerie di Matteo Sansone e Cosimo Santoro, dalle quali sottrassero fucili, pistole e cartucce. La sede del MSI venne devastata. Nel frattempo, mentre si andavano rafforzando i posti di blocco con carri rovesciati, per le strade si eressero barricate (con tronchi d'albero, lamiere...), soprattutto in Corso Gramsci, Piazza Tondi, Via Mercantile, Via Daunia, Via de Cesare, tutte presidiate da lavoratori armati di fucili, pistole, mazze, pietre e zappe. Polizia e carabinieri si asserragliarono presso la locale caserma. Intanto da Foggia niente ancora rinforzi fino alle ore 10.30 e, quando finalmente giunsero, furono costretti a fermarsi a Porta Foggia. Nel frattempo le forze dell'ordine tentarono di rompere l'assedio dei dimostranti, ma inutilmente. Alcuni agenti di P.S. entrarono lo stesso in Città, ma attraverso la campagna.

Dopo mezzogiorno, sempre da Foggia, al comando del Capitano Giuseppe Montemagno dell' Esercito e del dr. Celentano della Questura, arrivò, fermandosi all'altezza del macello, un'autocolonna composta da una Batteria del 14° Reggimento Artiglieri (150 uomini), da agenti di P.S. (150 uomini) e da una Sezione di carri armati (nel numero di 4). A questo punto non fu difficile rimuovere gli sbarramenti e fiaccare così la resistenza degli scioperanti. Rapidamente l'autocolonna si diresse verso le sedi del PCI (allora in Corso Gramsci) e della CGIL: qui trovarono e arrestarono una settantina di persone (tranne i ragazzi), vennero messi a soqquadro i locali, rinvenuti e sequestrati denaro, qualche fucile, tre bombe e alcune mazze. Certamente si sparava da alcune parti, ma non era una guerra: quanti morti si sarebbero contati se fosse stato così. Gli arrestati, nel frattempo, scortati dai carri armati furono trasferiti al carcere di Lucera. A sera, sul tardi, ritornò finalmente la calma.

Il triste bilancio di quella terribile giornata fu di un morto (Michele Di Nunzio, di 33 anni, padre di 4 bambini) e 40 feriti (tra i quali 25 lavoratori e un ragazzino di 10 anni).

Il giorno dopo, il 24 marzo, il sen. Allegato si recò in Prefettura con i nomi dei militanti del MSI in possesso di armi, indicando in essi i veri provocatori della situazione. Naturalmente, salvando la buona fede delle persone e rispettando il loro relativo punto di vista, la verità storica si presenta ed è sempre un po' più complessa e articolata di quanto una lettura semplificata possa enfatizzarne alcuni suoi aspetti.

I gravi incidenti di San Severo furono riportati con grande rilievo da tutti gli organi di stampa: ciascuno, però, li presentò a suo modo, interpretandoli secondo le proprie tendenze ideologiche. Uno dei pochi giudizi obiettivi venne espresso dal The New York Times del 24 marzo 1950: "La Provincia di Foggia è una delle più povere d'Italia. È preminentemente agricola, i suoi abitanti in maggioranza contadini senza terra e privi di ogni mezzo, vivono in condizioni precarie e questa è una delle ragioni delle continue agitazioni in questa parte d'Italia".

Ogni movimento di massa, compresa una rivoluzione, non è mai una casualità. Alla sua base non c'è solo o principalmente un'esigenza ideologica; spesso, o quasi sempre, è un insieme di bisogni primari insoddisfatti , come la fame, a provocare lotte, ribellioni e disarticolazioni nel tessuto sociale, specialmente se il contesto è percepito come di oppressione.. Nessuno, di per sé, ama o cerca la morte o il disordine. Del resto è accaduto sempre così nel tempo: dallo scontro fra patrizi e plebei nell'antica Roma, all'insurrezione degli schiavi contro il potere dispotico romano, all'assalto al forno delle Grucce (descritto dal Manzoni ne I Promessi Sposi) fino alle rivoluzioni di questi ultimi secoli e a quelle dei nostri giorni. D'altronde, se si pone attenzione, è quasi sempre una guerra tra poveri: anche poliziotti e carabinieri erano e sono, perlopiù, figli di poveri. In nome del loro pane sparano per obbedire a degli ordini contro quelli che potrebbero essere l'immagine dei loro padri, delle loro madri e dei loro fratelli. Queste sono le contraddizioni della vita!

Ritornando alle vicende sanseveresi, non poche furono le reazioni anche in Parlamento: fioccarono le interrogazioni al Ministro degli Interni da parte dei senatori comunisti Allegato e Rolfi e dei socialisti Tamburrano e Lanzetta, come, d'altro canto, i democristiani Genco, de Meo, Bavaro, Caccuri, Latanza, Resta, Giuntoli e Troisi chiesero quali provvedimenti sarebbero stati adottati nei confronti dei responsabili dei fatti sanguinosi.

I senatori Lanzetta, Tamburrano e Capacchione dichiararono sull' "Avanti!" del 26 marzo: "Come mai verso le ore 12 nella sede del PCI gli agenti di P.S. non trovano armi e nel tardo pomeriggio, dopo l'arrivo del Questore, son venute fuori le armi? Chi le ha messe? Dove è andato a finire il denaro conservato nei cassetti della sede? Perché anche il socialista avv. Erminio Colaneri è stato arrestato, dal momento che il suo fu un intervento solamente civile e corretto?" A queste domande non seguirono risposte.

I dirigenti locali più coinvolti nella vicenda erano Carmine Cannelonga, Matteo D'Onofrio, Antonio Berardi (Segretario della IV sezione del PCI) e l'avv. Erminio Colaneri.

Il 3 aprile 1950 il rapporto dei carabinieri fu inviato di competenza , per la fase istruttoria, alla Procura di Foggia. L'accusa era grave e l'art. 284 del Codice Penale, in simili casi, prevedeva: "Chiunque promuove un'insurrezione armata contro i poteri dello Stato è punito con l'ergastolo e, se l'insurrezione avviene, con la morte...Chi vi partecipa con la reclusione da 3 a 15 anni, chi la dirige con la morte". La pena capitale, in realtà, già era stata abolita con il Decreto Legge L.T. n.224 del 10 agosto 1924.

I quattro dirigenti su indicati rientravano fra quelli punibili in base all'art. 284 su menzionato.

Dalla Procura di Foggia venne confermata l'ipotesi di reato di insurrezione armata e il tutto fu trasmesso, il 20 aprile 1951, alla Sezione Istruttoria della Corte d'Appello di Bari. Il Pubblico Ministero di quest'ultima cercò di far cambiare il supposto capo d'imputazione in un altro, in quello cioè di "concorso in violenza e resistenza alla forza pubblica" (art. 337 e 339 del C.P.). La Corte di Bari, in quella stessa data, confermò la tesi dell'insurrezione armata, respingendo così la posizione del Pubblico Ministero. In vista del processo, le conclusioni furono inviate alla Corte d'Assise di Lucera il 10 dicembre 1951. Presidente di questa era il dr. Merla, Giudice "a latere" il dr. Tateo, Cancelliere Parracino: a questi si affiancarono 10 giudici popolari, molti dei quali di Foggia. Il 20 dicembre 1951 Giuseppe Di Vittorio spedì un telegramma di solidarietà a Carmine Cannelonga.

Il collegio di difesa era composto da 19 avvocati, fra i quali Lelio Basso, Fausto Gullo, Tamburrano, Ernesto Mandes, Ernesto Lufino, Biagio Di Giovine.

I denunciati erano 184, mentre gli imputati 110 (dei quali 98 già detenuti): fra questi 17 donne, 6 liberi e 6 latitanti.

Il dibattimento in aula fu molto acceso.

Da una parte i testimoni dell'accusa cadevano continuamente in contraddizione, arrivando con Salvatore Colapietra a dichiarare addirittura che "fu costretto dalla polizia a dire nella fase istruttoria quello che lei voleva dicesse". Dall'esame dei testi venivano, inoltre, fuori accuse pesanti e precise alla polizia , quali "mi minacciarono d'impiccarmi"(D'Errico), come anche il Capitano dr. Mollo ammise che il Cannelonga venne a proporgli una "distensione" e lui la rifiutò.

Dall'altro lato la difesa, con Basso e Tamburrano, sostenne brillantemente la tesi che si trattava di uno sciopero politico ed economico senza intenti insurrezionali e che i poteri dello Stato erano tre (Legislativo, Esecutivo e Giurisdizionale), contro i quali nessuna ribellione si era verificata. La polizia, secondo gli avvocati, non era un potere dello Stato, ma una semplice sua "funzione": una sottigliezza giuridica degna dei più raffinati "principi del foro".

Dal canto suo il Pubblico Ministero dr. Nicola Damiani era convinto che ci si trovava di fronte a un "preordinamento all'insurrezione", perciò chiese 10 anni di reclusione per Cannelonga, 9 per D'Onofrio, 6 per Colaneri, per tutti gli altri 427 anni con una media di 5 anni per imputato e l'assoluzione per 19 persone, tra le quali Soccorsa Sementino (moglie di Allegato), Elvira Suriani (moglie di Cannelonga), Armida Salza (moglie di D'Onofrio) e Isabella Vegliato (la portabandiera rossa).

Il 5 aprile 1952, alle 3 del mattino, dopo 62 udienze e 17 ore di discussione in Camera di Consiglio, la Corte emetteva la sentenza di assoluzione per Cannelonga, Colaneri, D'Onofrio e Berardi; 49 venivano condannati a pene varie per reati minori; rimanevano in carcere 12 imputati su 110. In seguito all'appello inoltrato dal Pubblico Ministero, la Corte di Bari, presieduta dal dr. Antonio Gentile, il 1 marzo 1957 in sostanza confermava il verdetto della Corte d'Assise di Lucera del 5 aprile.

Usciti dal carcere lucerino, gli ex detenuti assolti, preceduti da motociclisti appositamente giunti da San Severo, arrivarono in Città con due pullman e furono accolti da una folla entusiasta e festante.

L'esperienza del carcere, pur se vissuta fra letture intense e conversazioni vivaci fra compagni di partito, non poté non provocare, come è facile intuire, gravi disagi alle famiglie degli arrestati, con figli ospitati qua e là presso persone amiche.

Così terminò quella triste vicenda. Giustamente, nell'intervista rilasciata a Raffaele Iacovino (riportata nel libro dello stesso "23 marzo 1950. San Severo si ribella", p. 75), Matteo D'Onofrio precisava: "Non eravamo eroi, ma solo povera gente fra gente come noi". Io aggiungerei: sarà pur vero che non sono stati degli eroi, ma persone coraggiose, coerenti e dignitose che credevano in ciò che facevano, subendone le conseguenze, sì, ed è per questo che ad esse, molte delle quali ormai scomparse, va oggi il nostro doveroso e grato omaggio della mente e del cuore, nella speranza che questa Città ricordi in modo più tangibile le giuste motivazioni che sono state alla base delle loro rivendicazioni, tributando a questi concittadini l'onore che meritano. Non a caso e non a torto L'Unità del 23 gennaio 1952 ebbe a definire l'intera faccenda "una delle più impressionanti montature poliziesche che la storia del Mezzogiorno ricordi".

Nelle elezioni amministrative del 25 maggio 1952 a San Severo il PCI conseguì il 43,10% dei suffragi e la maggioranza assoluta dei seggi in Consiglio Comunale con 23 consiglieri su 40, mentre 3 andarono al PSI, 4 al MSI, 4 ai Liberali e ai Monarchici e 6 alla DC. A Sindaco venne eletto l'on. Filippo Pelosi e in Giunta, fra gli altri, Carmine Cannelonga, Michele Agrusti e Antonio Cologno. In Consiglio Comunale sedevano personaggi di tutto rilievo e rispetto come, per ricordarne solo alcuni, per il PCI il sen. Luigi Allegato, Emilio Amoroso, Michele Pistillo, Matteo D'Onofrio, Michele Fantasia; per la DC l'on. Raffaele Recca, Pasquale Iantoschi, Gaetano Piscitelli, Genoveffo Tata; per il PSI Ernesto Mandes, Michele Santarelli; per il MSI Antonio La Monaca; per i Monarchici Saverio De Girolamo. Altri tempi, altre sensibilità, altri uomini!

Certamente la violenza, da qualunque parte provenga, non può e non deve avere alcuna legittimazione né morale né politica, perciò è sempre da condannare: in una democrazia i problemi vanno risolti con il confronto, semmai anche serrato e duro, ma sempre nel rispetto delle norme di civiltà. Ma nei confronti di un popolo povero e affamato si può mai reagire con la sola arma della repressione, senza tentare di dare seriamente una risposta alle sue domande, in termini di concretezza e senza tempi lunghi, dal momento che la fame non aspetta? Non ha, forse, anch'esso una sua dignità e un suo diritto alla vita? Specialmente al Sud, non ha conservato, lungo il corso dei secoli, una pazienza quasi biblica, sempre però pronta a scoppiare e a deflagrare? Tutto questo, sicuramente, non giustifica eventuali intemperanze, che inevitabilmente in simili occasioni si commettono ( e allora furono commesse), ma non va sottovalutato il clima sociale di tensione nel quale poi un evento, seppur increscioso, data l'insondabilità dell'animo umano e come in una incontrollabile reazione psicologica a catena, viene necessariamente a svilupparsi. E' da notare, e non è un aspetto marginale, che fra il popolo sanseverese in quel giorno in sciopero non vi erano solo comunisti e socialisti, ma anche molti iscritti alla Democrazia Cristiana e alcuni lavoratori, come quello ucciso a Melissa, militanti dello stesso MSI. Il colore, quando si tratta di giustizia, come si può notare, assolutamente non c'entra.

E' risaputo che Togliatti non approvò i fatti di San Severo, perché non aiutavano ad accreditare l'immagine democratica del PCI, ma altrettanto dimostrato è che in Città non esisteva alcun arsenale segreto di armi in mano ai comunisti. Questa ipotesi fantasiosa inventata e fatta circolare ad arte e interessatamente da alcuni è una autentica distorsione e mistificazione della storia oltre che un'offesa e, direi anche, un insulto alla onorabilità di questa Città e dei suoi abitanti: se fosse risultata verità, la carneficina sarebbe stata incalcolabile nelle sue vittime. Escludendo, dunque, la connotazione di uno scontro fra legalità e illegalità (ci sarebbe molto da discutere sul significato di "legalità" e su quello di "illegalità"), qui invece si è di fronte a un movimento istintivo, magari impulsivo, comunque di massa e soprattutto davanti al dramma e alla coscienza di gente umiliata da sempre senza una prospettiva di speranza che lottava per la propria e l'altrui sopravvivenza: un fatto che va capito e ben contestualizzato nel tempo, se ad esso parteciparono persone di ogni età che andava dai 62 anni dell'avv. Colaneri ai 19 di Leonardo Beato e Bianco Custodero fino agli appena 17 di Mario Castiglione. D'altronde un popolo senza una guida istituzionale va incontro a una eclissi di certezza: dopo la sospensione dalla carica di Sindaco del prof. Emilio Amoroso (Decreto Prefettizio del 17.10.1948, n.3777), il Sindaco supplente, l'Assessore anziano Francesco Paolo Visconti, certamente un buon uomo ma non altrettanto buon politico, quel giorno del 23 marzo preferì andare a caccia invece di stare, com'era suo dovere, in mezzo alla sua gente in lotta, non fosse stato altro che per calmarne gli animi più tesi. Ma tant'è, se le cose sono andate avanti così.

Per concludere, propenderei a non essere tanto d'accordo con l'affermazione del pur famoso scrittore tedesco Johann Wolfang Goethe: "Scrivere la storia è un modo come un altro per liberarsi dal passato". Una rimozione del ricordo che, a mio giudizio, suonerebbe troppo sbrigativa e, perché no, anche comoda! Illuminante e più precisa mi sembra invece quella del grande oratore latino Cicerone (De oratore, II, 9): "La storia è testimone del tempo, luce della verità, vita della memoria, maestra di vita".

Oggi molte cose sono cambiate: i DS sono al governo, la polizia è stata smilitarizzata e sindacalizzata, il benessere economico si è un po' più diffuso fra le varie fasce sociali ( anche se ci sono ancora molti poveri), alcuni diritti fondamentali sono un fatto ormai acquisito alla legge e alla prassi (Statuto dei Lavoratori, contrattazione e concertazione, assistenza sanitaria...), diverse importanti iniziative sono state avviate (Patti territoriali, Contratti d'area...), la democrazia (nonostante le molte grottesche demonizzazioni e un bipolarismo zoppo) è nel complesso ben salda, anche se rimangono non pochi problemi ancora da risolvere, non da ultime le risposte da dare alle grandi sfide lanciate dall'alta tecnologia (Internet) e dalla New Economy (=Nuova Economia, quella cioè che viaggia in Rete).

Anche in questa Città è mutato molto: a Palazzo Celestini vi è da circa sei anni una Amministrazione di centrodestra, si sono moltiplicate scuole e iniziative socio-assistenziali , si è costruita qualche struttura di pubblico interesse, l'area urbana e quella produttiva si sono estese in ogni direzione, ma all'apparente benessere e all'indubbio abbellimento di alcune sue zone fanno anche tristemente riscontro un preoccupante degrado del vivere, la diffusione della criminalità e della droga, l'abbandono dei giovani a se stessi, la mancanza di un tranquillo futuro per la scarsezza di lavoro (si è a oltre 12.000 disoccupati), la frantumazione della rappresentanza politica con la conseguente disaffezione alla partecipazione e al voto, la poca incisività della cultura ridotta non poche volte a elitarismi da salotto, la sostanziale emarginazione di ogni progettualità oltre che delle energie migliori.

Per l'avvenire mi auguro che non ci siano più la necessità o le premesse per il verificarsi o il ripetersi di fatti come quelli accaduti a San Severo il 23 marzo 1950. Questo elementare messaggio dovrebbe insegnare la Storia ai giovani e ai meno giovani. Ma sarà così? In questa società contemporanea caratterizzata dalla cosiddetta globalizzazione, dove un mercato senza regole diventa ogni giorno sempre di più iperliberismo selvaggio e dove i ricchi saranno sempre più ricchi e i poveri condannati a essere sempre più poveri, scoppieranno fatalmente e di continuo tante Seattle, se i governanti non penseranno realmente e seriamente a governare con giustizia e onestà gli interessi solidali di tutti, specialmente dei più deboli, e non a difendere primariamente, come fin troppo spesso avviene, il proprio "particulare", come ricordava il Guicciardini. Tramontate le ideologie (anche se di tanto in tanto qualcuno tenta di farne risorgere ceneri e fantasmi), resta l'uomo con i suoi valori e le sue numerose domande quotidiane: e questi non ha un colore o un'etichetta che ne possa segnare una distinzione, ma è un abitante di questa terra e del nostro comune destino che ha diritto al suo spazio di libertà, di rispetto e di sicurezza. Spero che la Storia trasmetta a tutti una maggiore saggezza, che i partiti e i cristiani, per me che lo sono, sappiano fare con più coraggio e una più visibile presenza profetica una reale scelta di solidarietà e che soprattutto si sia più figli di una intelligenza lungimirante che non di una stupida quanto anacronistica e conservatrice miopia di parte.

Credo di non esagerare se si pensa che il 23 marzo 1950 rimane e rimarrà, nella coscienza e nella memoria di tutti, una pagina epica scritta nell'immaginario collettivo e negli annali della storia di questa Città.

A nota riporto il testo della canzone composta per quella circostanza:

"Il 23 marzo che giorno di coraggio,
uomini e donne siamo stati coraggiosi.
Alle 10 eravamo in sezione
e gli scelbini salivano dal balcone,
col mitra ci hanno fatto alzare le mani,
di parole siamo stati insultati.
Alle 10 il maresciallo e i suoi uomini
ci hanno aggrediti, ma non siamo spaventati,
perché loro lo sanno, siamo coraggiosi.
Ma la lotta continuerà e bandiera rossa trionferà.
Con autoblindo e carrarmati ci hanno trasportati
e alle carceri di Lucera ci hanno portati.
Siamo stati consegnati al presidente.
Noi tutti coraggiosi siamo stati spontanei:
signor presidente, siamo innocenti,
sono stati i fascisti a infamarci.
Ma la lotta continuerà e bandiera rossa trionferà".

 

.:Statistiche:.

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