Mi rendo conto bene che questa non è una domanda da
periodico locale, che in genere è solito fermarsi alla cronaca o al commento
dei fatti del luogo, ma il nostro è uno che, pur nato "in loco", vuole avere un
respiro più ampio che vada oltre le mura ristrette della Città: e poi l'interrogativo è sentito come proprio
dai nostri numerosissimi lettori, sparsi in molte regioni d'Italia e anche all'estero.
Una premessa questa doverosa per una terza pagina culturale.
Vengo ora al problema.
La nostra, purtroppo, è una società secolarizzata,
con la superspecializzazione ("l'uomo unilaterale" di GOETHE) prevalente
sull'immensa e sapiente precisione artigiana, labile nei suoi modelli culturali, estremamente legata al filo delle
sensazioni, frenetica nel tentativo di tacitare il pensiero, timorosa del silenzio e divoratrice di
parole consumate, spenta nei sogni e spesso nei desideri, poco amante della contemplazione distaccata
e divertita delle cose: insomma più segno di drammatico vuoto che testimone
sofferta d'un travaglio di ricerca. La tecnologia predomina sull'armonia con il
ritmo della natura come il non-soggetto (a tutti i livelli) sulla genuina
autenticità della persona. Sembra di essere tutti "guidati" o di "subire"
e non di "guidare" o di "organizzare" la storia, come a dire l'analisi
critica è stata sostituita dalla semplice fruizione (seppur tale, con le tante
sofisticazioni!) dei prodotti dell'economia d'un mercato, che ogni giorno si
sta rivelando sempre più contro l'individuo, specialmente verso quello più
debole e meno fortunato. Tutto è
provvisorio, precario, "flessibilmente" incerto, senza più soste, sola
immagine, con poca speranza di recuperare una manciata di valori che diano un
"senso" al vivere quotidiano. Non meraviglia, allora, se tutto diventa lecito,
anche l'imbroglio, il lamento colpevole, il furto di idee e di oggetti, la svendita della propria anima (ma alcuni
ce l'hanno ancora o l'hanno mai avuta?) per una lenticchia di notorietà o di
potere, l'utilizzo privato di ciò che dovrebbe essere un pubblico servizio, una
guerra con tutti i suoi orrori, la soppressione cinica della vita o l'uccisione
programmata e violenta dell'ambiente, cioè, in sintesi, il niente.
Cosa fare in tutto questo nebuloso degrado?
Io credo che occorra fermarsi un po' e scendere
nella grotta della propria coscienza e là, in profondità, riscoprire con un attento ascolto la voce di
un Dio nascosto in un angolo dove i rumori sono assenti. Lì la parola divina è
avvolgente come l'acqua, diamante inciso in mille rifrazioni, flebile,
accorata, delicata, come quella di un padre in attesa di dare una carezza al
proprio figlio che torna. Ė in quel luogo, dipinto da pensieri illuminanti e da
vere nostalgie, che ciascuno può ritrovare lucidamente un'anima, un Io finalmente liberato dai dubbi e dalle
presunzioni d'un narcisismo
egocentrico, una strada serena per il
proprio "viaggio" nel mondo delle contraddizioni (la "selva oscura" di dantesca
memoria) sapendo ben discernere il buono dall'insulso, un volto e un nome da riconoscere, con un
tempo che cambia tutti e tutto, fra le
rughe di ogni creatura. Questo non è
solo il Dio della speranza, della
consolatoria tensione ad aggrapparsi a un "qualcosa", ma il cuore di un Amico
che tende la sua mano per riabilitare l'umano ridandogli veste e dignità di
essere libero, aperto alle meraviglie della terra e dell'universo, partecipe alla necessaria sofferenza d'un
Cristo suo fratello, conscio che oltre
l'orizzonte del visibile v'è il passeggio per
le strade luminose di una Città Celeste, sicuro che la morte non è la fine ma l'inizio d'un progetto
d'amore in continua evoluzione.
Occorre, allora, saper cogliere il profumo della
presenza divina in un sorriso, in un gesto d'affetto generoso, nel tepore del cielo stellato, nel volontario che dona la sua vita per chi
soffre, nel soffiare del vento o nella magia dei colori dei fiori, nello
sguardo d'aiuto offerto a un anziano dimenticato, nella raccolta penombra di un'antica
cattedrale, nell'eco dei monti o nel
fruscio del fogliame di un bosco solcato da un fiume, nella solitudine pensosa
di chi non può parlare, nell'elegante
indolenza di un pino o nella folgorante bellezza di una musica o di una donna.
Questo Dio misterioso e liquido, volutamente occultato a un occhio che non può
sostenere il suo fulgore abbagliante,
permea e attraversa la vicenda umana legandone sensi e nessi in un
compiuto romanzo dove l'uomo è autore ed Egli coautore, come in un coro dove
ogni voce ha la sua inconfondibile unicità.
Sono convinto che questa è la realtà: basta solo uno
sforzo intuitivo, l'innocente naturalezza di un bambino (come direbbe HENRY
JAMES) o uno spicciolo di fede che sappia elevarsi al di là della montaliana
desolante "muraglia". Forse, allora, la società saprebbe rivedersi allo
specchio come ancora fornita di
un'anima e, chissà, qualcosa in positivo potrebbe muoversi in un mondo
finalmente abitato dallo stile della saggezza, come un sole che affiora oltre
lo schermo di una siepe o un gabbiano che si libera in volo dalla pagina di un
racconto.
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