Scrive il grande filosofo tedesco
Martin Heidegger che "l'essenza dell'uomo ha la forma di una domanda". Quella
che ora ci poniamo, nel discorso che sto svolgendo, è una delle fondamentali e
delle più legittime. Se tutto fosse casuale,
accidentale e inspiegabile nelle sue ultime ragioni sarebbe veramente da
disperarsi, almeno da parte dell'uomo. So bene del grande dibattito da sempre
in corso nella scienza e nella filosofia non solo in quelle antiche ma
soprattutto ai nostri giorni: al di là delle fedi religiose, in genere
prevalgono l'interlocutoria sospensione del giudizio, l'agnosticismo kantiano,
una non chiara congiura del silenzio o addirittura l'avversione alla posizione
di una tale domanda, anche se questa, estromessa dalla porta, rientra poi prepotentemente dalla finestra, come ben
sottolineato nell'ultimo libro di Georges
Charpak e Roland Omnès "Siate saggi, diventate profeti-Nostro
sacro universo". Con sbrigativa superficialità ci si rifà alle leggi della
natura, come fossero qualcosa di "scritto da sempre e per sempre" (ma da chi?)
e perciò esaustive e definitive. A me questo sembra un ragionamento troppo
minimalista, riduttivo, fuorviante, timido e soprattutto non rispettoso delle
esigenze della stessa razionalità, insomma un alibi per affermare o negare
un'ipotesi già precostituita.
Innanzitutto c'è da dire che il
reale non si conclude e identifica, nell'intelligibilità della sua totalità,
unicamente nel solo razionalmente attingibile (Hegel). Vi sono molte cose che
non sono quantificabili, verificabili sperimentalmente o falsificabili nel loro
contenuto, eppure esistono. Chi metterebbe mai in dubbio la realtà e l'evidenza
di sentimenti come l'amore, l'amicizia, il dolore, la paura, la creatività, la
speranza, i sogni, i desideri, i progetti...? Eppure tutto questo insieme di
vibrazioni interiori fanno sentire il loro peso e i loro riflessi, e non solo
virtualmente! A parte le "vie o prove" classiche dimostrative dell'esistenza di
un Dio proposte da Aristotele, S. Anselmo, Duns Scoto, S. Tommaso d'Aquino e
indirettamente suggerite da alcuni moderni scienziati (Einstein, Jeans, Fantappié...),
qui sono da porre alcune semplici quanto ragionevoli domande, alle quali
occorre dare altrettanti plausibili e accettabili riscontri: È proprio vero che
l'unico strumento di conoscenza sia la sola ragione? Se questa si fonda sulla
elaborazione dei dati provenienti dall'osservazione sensoriale, i sensi non
sono forse limitati e limitanti nella finitezza della loro mediazione
conoscitiva? Se esiste un orologio con i suoi interni complessi meccanismi,
secondo il calcolo delle probabilità, non deve esserci anche un orologiaio che
l'ha e li ha confezionati? Se nell'uomo si pone una domanda, non deve esserci
anche la possibilità di una risposta perché la prima sia legittimata? "La
soluzione del problema della vita non risiede forse al di là della vita stessa"
(Wittgenstein), dal momento che, onde evitare l'autoreferenzialità, "niente si
può spiegare con se stesso" (Gödel)? Se tutto attorno è immenso e infinito, non
ci deve essere una spiegazione che vada al di là di esso? Se il microcosmo e il
macrocosmo parlano un linguaggio fisico ma soprattutto matematico, può essere
mai quest'ultimo autoesplicativo? Se la vita a tutti i livelli e gradi è un
fatto così organizzato e ben regolato tanto da destare una profonda meraviglia
(basti pensare alla bellezza e al profumo di un fiore, al sapore di un frutto,
alle raffinate funzioni del corpo umano e di quello animale), può mai essere
tutto questo, pur determinandosi alcune condizioni favorevoli, solo un prodotto di una casuale aggregazione
evolutiva di elementi organici privi di ogni logica finalità, come voleva
DARWIN? Dal caos può mai statisticamente originare un ordine così perfetto? Se
c'è una "logica" alla base, per giunta senza alcun ausilio di tecnologie
avanzate dirette da un'intelligenza, non si deve ipotizzare una Mente che la definisce e la programma? Oltre alla
ragione, come fonte di conoscenza, non c'è forse anche l'intuizione, la
capacità cioè di assemblare in unità
dati e frammenti solo apparentemente fra di sé slegati, e quindi veicolo
di un più alto e completo sapere? E potrei continuare sul rapporto fra Bene e
Male, Destino e Provvidenza, Libertà e Disegno superiore, ecc....
A spiegare e giustificare questo
insieme di esigenze razionali non può che essere postulata l'esistenza di una
Entità, che sfugge a ogni forma di catalogazione sensoriale e percettiva, che
si nasconde perché Altro e Invisibile, la cui presenza si avverte ma non si
tocca, un Essere cioè che è intravisto ma non materialmente sperimentabile
(perché materia non è), un Qualcuno il cui enigma può essere colto e sciolto
solo al di fuori della dimensione spazio-tempo, perché è proprio al di là di
tale circoscritto orizzonte che si situa. Parafrasando Rimbaud e, sulla sua
scia, Milan Kundera c'è realmente da dire che "la vita è altrove"!
Io penso che l'esistenza di un
Dio sia richiesta dalla scienza più illuminata oltre che dalla filosofia più
problematica. Non può essere un "a priori" da escludere con ignorante
sufficienza. È vero che non è un
"oggetto" da indagare in laboratorio: ma la soggettività non va, forse,
"ricostruita e riconosciuta" senza inseguire il processo imposto dagli angusti
e miseri schemi della laboratorialità? Il metodo della falsificabilità, ammesso
da tutti dopo Popper, è solo una
metodologia scientifica ed è legittima per la comprensione dei fenomeni
naturali (=spiegare il "come"): su questioni, però, di altri livelli e che non
sono fenomeni, com'è Dio, subentra un'altra logica che va al di là di quella
puramente scientifica e questa è l'osservazione super-razionale, cioè attenta e
globale, della complessità (=spiegare
il "perché così e da chi").
Il "credere", e quindi la fede,
non è altro che il superamento di una rilettura esclusivamente fenomenica
dell'esistere, com'è per la scienza, e un incontro con un Qualcosa di Altro
secondo le leggi della psicologia, della comunicazione e della statistica: è da
qui che il Tutto può colorarsi di un "senso" ultimo e in sé compiuto. Non
tutti, purtroppo, arrivano a queste conclusioni, perché molti preferiscono
fermarsi a metà strada: l'altra metà, cioè il famoso "salto nel buio"
(Kierkegaard) o la "ricerca della santità" (CAMUS), è fiducia, cioè coraggio,
umiltà e impegno, e ciò spesso frena e fa paura. Questo è il vero dramma del
vivere.
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