In questa nostra società tecnologica e consumistica priva
di "senso" e come abitata da folli robot alla ricerca di non si sa che cosa, in
giro non si respira che solitudine, una condizione non detta ma palpabile come
l'aria o lo spesso ghiaccio che ricopre le nostre vie. Non si parla ma si
biascicano sillabe sconnesse, il silenzio è sopraffatto dall'urlo, il rumore si
stende sovrano ferendo ogni fragile emozione del cuore. Non meraviglia più di
tanto se la vita o la morte sono due "accidens" che quasi non ci toccano, distratti come si è di
fronte al dolore e al grido di chi disperatamente cerca una salvezza o uno
sguardo d'attenzione. L'indifferenza è la legge che il vuoto interiore, dopo la
rovinosa caduta seguita alla stolta uccisione dei valori, sta generando con l'ostentazione delle più
stupide finzioni: guerre, bambini trucidati senza alcuna pietà, fame dipinta su
volti sfigurati, ingiustizie subite e accettate come necessità secondo una
logica che sa di mostruoso egoismo sono ormai diventati un comune quotidiano
ingrediente che scivola dinanzi ai nostri occhi senza causare uno straccio di
reazione. Questo è il prezzo che stiamo pagando alla moderna
globalizzazione, dove tutti si è uno,
nessuno e centomila, cioè anonimi numeri da giocare alla roulette delle altrui
volontà. Chissà perché questo nostro mondo non sia più così ospitale né quale
connotazione si debba dare alla diffusa sensazione di essere come tanti
stranieri in cerca di una patria.
Non si dica che tutto ciò è una esagerata
esasperazione. È, purtroppo, la realtà del sentirsi orfani di una comunità, che
un tempo in qualche modo forgiava persone, pensieri, progetti, voglia di
vivere, credere e lottare per un
qualcosa. Ci si chiamava per nome, si sapeva ascoltare, la parola era un suono
con un suo sapore, un amico era un amico, non si dimenticava con tanta fretta
una promessa, un impegno o una vigile promozione di ciò che era il meglio. Di
questo tipo di comunità, della quale si ha nostalgia e che bisogna ricostruire,
non se ne vedono, però, tante tracce:
l'apparire ha oscurato la sincerità, l'accettazione rassegnata dell'esistente
l'interesse per chi è senza un presente o un futuro, la sensazione di nascere
già vecchi con labbra senza più poesia per sognare e cantare alla vita, la
presunta solidarietà nei pub, sui viali o dinanzi a un teatro espressione più
di periferiche e rumorose coscienze che non di vera comunione fra esseri. Cosa
si fa per i bambini e i giovani, per gli anziani e gli ammalati, per i senza
tetto e un'equa amministrazione delle
pubbliche risorse? Chi alza più la voce per denunciare queste omissioni, per
comunicare reale vicinanza agli ultimi,
per proclamare con coraggio che non c'è umanità senza onestà e
giustizia? Si può mai solo pregare senza essere nel contempo anche testimoni e
profeti, persone non facili ai compromessi, veri operatori non di una carità
buonista, perciò sterile, ma di una continua? Si può mai dire di amare Cristo e
poi, scendendo sulla strada, non sporcarsi le mani per Lui presente negli
abbandonati, nei vagabondi alla ricerca di una meno squallida casa, nei
disperati che implorano un aiuto, nei deboli che invocano chi dia loro un
sostegno? Ci si può mai definire comunità creando steccati emarginanti, inseguendo
sorridenti e soddisfatti protagonismi, inscenando coreografie che sanno più di
cerimoniali che non di sale che dà sostanza a un cibo? Dove si è quando si
consumano soprusi, si scrivono complicità, si firmano parzialità, si scolorano
speranze, si nega uno spicchio di amore?
Noi superstiti orfani di una comunità abbiamo ancora
una fede che ci spinge ad andare oltre la siepe del silenzio. Ma noi, per
fortuna, siamo adulti in grado di capire, discernere e decidere. E per gli
altri che questo bagaglio pregresso non hanno? Che ne è e che ne sarà mai di
essi, del futuro, di tutti?
Comunque, nonostante il contrario, occorre non
demordere: il tempo alla fine dà sempre ragione a chi ha fiducia nell'uomo.
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