Per essere credibili in ciò che si pensa e poi si dice o
si scrive occorre un minimo di onestà intellettuale, che, tradotta in termini
concreti, significa rispetto per la propria persona nella sua dignità, ma
rispetto anche per quella degli altri, ai quali non si ha il diritto di
propinare lo squallore sotto forma di "cultura". Quest'ultima, quella vera che
implica coerenza, non può essere usata come mezzo più o meno presentabile
credendo così di imporsi all'attenzione (di chi?) e da essa poi trarre il
consenso degli allocchi ed eventualmente
costruirci vantaggiosamente la propria carriera: alla fine, pur seduti
su una cattedra o su una poltrona in un ufficio, anche quelli più ambiti,
sempre vuoti si rimane, non certamente "maestri" di vita e di pensiero. Del
trionfo delle tante banalità o dei molti falsari il mondo è pieno: del resto
quello più importante è sempre ciò che non si dice o non si scrive o,
paradossalmente con ESIODO, "La parte è più del tutto".
Oggi, in questo campo, le cose non vanno
assolutamente nella giusta direzione. Basti osservare, per stare solo a un
esempio, a come si conducono avanti
alcuni concorsi universitari: se non si è parenti, amici, compari o concubini o
se non ci si svende nel proprio decoro mentale non si va da nessuna parte. Il
risultato è che si è spettatori spesso impotenti di un degrado complessivo, di
una rinuncia a pensare fatta passare per postmodernità, di una acquiescenza
servile e cortigiana ad applaudire il potente di turno, dell'assenza di quel
minimo di orgoglio personale che fa di
un essere umano un laboratorio di idee e una voce rispettabile: altro che
coscienza critica di una società, qui si è di fronte all'eclissi quasi totale
della coscienza, con la conseguenza di vedere o incontrare con disgusto
persone, pur investite di alti ruoli culturali, piegare con disinvoltura e in
maniera desolante viso, schiena e quant'altro di pudico loro la natura ha concesso.
Questa è la realtà: l'epoca dei grandi "Maestri", in
nome di un discutibile e, perché no, talora puerile laicismo, è,
purtroppo, chiusa e da tempo. Non
meraviglia più di tanto, allora, se l'ignoranza domina sovrana, se la presunzione è quanto di più ottuso si
è costretti a tollerare, se l'arroganza implica un viscerale rigetto dei suoi
autori. Penso ai nostri giovani: quali modelli mai avranno cui riferirsi, in un
mondo già di per sé così difficile in
cui vivere? Con un respiro così corto e il rifiuto a un confronto un po' più
serrato con i molteplici volti del reale non si va molto lontani: si possono
vincere anche tutti Premi Nobel di questa terra o quant'altro di analogo, con
tutti i retroscena di giochi e giochini per giungervi, ma se non si "è" se
stessi, dopo l'attimo fuggevole di notorietà,
si cade inesorabilmente nell'oblio della memoria collettiva ed è bene
sia così per chi non ha nulla da dire se non quello di accarezzare e
promuovere, autoreferenzialmente, l'ipertrofia del proprio Io limitato.
Qualcosa, però, deve cambiare. Occorre recuperare un
po' di autorevolezza e autonomia alla Cultura, quella tesa a una seria ricerca,
priva di piaggeria e di pregiudizi, aperta al nuovo, libera dinanzi a ogni cosa e a chicchessia. Anche
se tutto è ripetizione, l'intellettuale di razza sa andare oltre, guarda
lontano, collega quanto è frammentato, non improvvisa ma progetta, ha
l'acutezza dell'aquila, la leggerezza del vento, il candore del saggio,
l'attenzione cordiale del santo. Non si ferma certamente all'effimero né sulla
soglia dell'inessenziale, senza scorciatoie o inutili contorti giri da
protagonista va diritto alla mente e al cuore delle cose e dell'interlocutore,
cercando, se possibile, una sintonia su ciò che di veramente sensato e umano
pulsa all''interno di ciascuno di essi. Il vero uomo di cultura ascolta, è di
poche parole, ma sincere ("Ciò che si sa, si può dire in tre parole": L.
WITTGENSTEIN), osserva con lucidi occhi, non ruota attorno ai problemi ma li
affronta con coraggio e fermezza, cerca il chiarore d'una sofferta scoperta, non
sfuggendo l'eventuale deserto del dubbio. La Cultura è pazienza, invenzione,
creazione, energia e fantasia, come un viaggiare sull'oceano alla ricerca
dell'isola perduta. Perché sia tutto ciò, è necessario che essa si rivesta di
un'etica, che alla fine poi non è altro
che il volto pulito della libertà. Un non antico aforisma dice: gli uomini
colti sono superiori agli incolti nella stessa misura come i vivi sono
superiori ai morti.
Qualcuno dirà che i tempi non vanno in questo verso
ed è vero (perciò questi ultimi sono anche
molto "strani" e, sotto diversi aspetti, invivibili), ma è l'unica via
per restituire al pensiero e ai suoi prodotti il nobile nome che merita. E spero sia così, immaginando che la futura
generazione, dopo la notte della presente, possa preparare l'alba d'un mondo
culturalmente e socialmente migliore di quello attuale.
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