1. La funzione della filosofia
Sui grandi temi del vivere una parola importante compete o
dovrebbe competere alla filosofia, da intendersi quest'ultima come capacità di
riflettere con serena lucidità sui "perché" e sui "nessi" che caratterizzano
l'apparente e talora contraddittoria frammentazione esistente nelle cose e
negli eventi quotidiani. È vero che oggi la filosofia sembra aver rinunciato
alla sua funzione "maestra", che è quella di pensare e di far pensare.
Certamente non si può più parlare di una filosofia come sistema chiuso e ben
definito di conoscenze, che di essa ne
faceva un elemento compatto e dotato di una sua sufficiente e chiara coerenza
interna. Spesso a minare il tutto era l'apoditticità dei principi dai quali si
lasciava discendere il tutto: la scienza, con la sua attività spesso demolitrice più che complementare, ha
fatto poi il resto, permettendo la proliferazione del dubbio su ogni cosa, che,
se legittimo sotto molti aspetti come metodo, non può essere, però, la risposta
ultima in ogni procedimento conoscitivo. Occorrerebbe uscire fuori da questa
nebbiosa e asfittica "rinuncia" e dare un giusto spazio al pensiero logico,
perché una "logica" esiste, purché non si abbia la presunzione di affermarne
come valida soltanto la propria. Bisognerebbe capire meglio i meriti e i limiti
delle ricerche portate avanti dal Circolo di Vienna, da K. Popper e dal moderno
cosiddetto "pensiero debole" (Cacciari, Vattimo...): alla fine si scoprirebbe che
qualcosa li accomuna ed è l' "aderenza ai fatti" e si sa che questi ultimi
presentano una pluralità di letture. Lo sforzo, allora, sarebbe quello di
cogliere, selezionare e generalizzare questo pluralismo e riuscire a
individuare gli elementi comuni che l' attraversano. Ma quanta umiltà e quanto
onesto e sincero amore alla verità un tale modo di procedere richiede! E i
filosofi, purtroppo, non sempre possiedono queste necessarie virtù.
Per quanto attiene ai problemi tratteggiati in questo
saggio, la filosofia, cioè quella sgombra da pregiudizievoli apriorismi, ha da
dire qualcosa, che io identifico sostanzialmente con la "decisione", perché di
questa si tratta, e "intuire"
finalmente il legame che collega i vari rami della dispersione degli esseri. L'
"assenza" va letta con la "presenza", il "vuoto" con il "sensore" che lo
percorre, lo "spazio-tempo" con un "qualcosa" cui esso intelligentemente
allude. Non ci si può chiudere blindati
nel "già dato" ma imparare ad "andare oltre" non tanto con la fantasia quanto
con la mente "creativa": un lampo di "genio" sarebbe necessario, ma di quella
genialità che talora è fatta di attenzione al semplice e al marginale, perché è
proprio dall'analisi di questi ultimi che sono nate le migliori intuizioni che
hanno poi rivoluzionato e fatto così progredire la conoscenza umana. "Andando
oltre" si scopre che esistono altri orizzonti del sapere, dell'essere e del
vivere, ma occorre compiere con coraggio questo "salto" dal comodo "disimpegno"
intellettuale. Bisognerebbe cioè apprendere e praticare il "volare alto", non
fermarsi nell'angusta valle delle papere non pensanti. Questa non è tanto la
funzione del filosofo "impegnato e schierato" quanto quello del "filosofo" sic
et simpliciter. Ma esistono oggi ancora questi filosofi? Non pare, se il
risultato è quello della paura ad affermare l'autonomia del pensiero dalla
scienza empirica e dal suo impiego tecnologico. Liberandosi da questi schemi,
ci si accorgerebbe che la presunta "uccisione" del sacro non ha pagato, anzi.
Di esso si avverte una struggente nostalgia: senza di esso la filosofia è un
"pour parler", un farfugliare cioè sul niente, decretandone così la sua morte.
Tutto questo per un timore reverenziale verso l' "empiria": ma è mai
dignitosamente accettabile tutto ciò?
2. La funzione della conoscenza di frontiera
Per dare un "senso" al vivere serve certamente la filosofia, intesa
come saggezza, ma non basta, perché si ha bisogno di punti fermi di riferimento
che vadano al di là della pura razionalità, poiché, come si è detto
precedentemente, quest'ultima a un dato momento si accartoccia su se stessa,
balbetta, si contraddice, si blocca e spesso, se non si ha la forza del
"salto", purtroppo anche si arrende. L'intuizione ovviamente aiuta, ma
un'incertezza di fondo comunque stenta a dissolversi. Occorre, allora,
interrogare il mistero: con cautela, con prudenza, con la sempre dovuta
autocritica, ma è necessario avviare questa rischiosa operazione. È appunto da
questa esigenza che è nata la ricerca cosiddetta di frontiera, portata avanti
soprattutto dalla parapsicologia e dallo studio dei fenomeni "off limits", come
sono quelli mistici, paranormali, metafonici (le "voci" al registratore e alla
radio), onirici (sogni "particolari"), luminosi (apparizioni) e quant'altro
attiene a questo specifico campo di indagine.
Perché queste conoscenze di
frontiera possano dirsi realmente tali occorre darsi una rigorosa metodologia
di ricerca e di analisi: niente può e deve essere rifiutato o accettato con un
"a priori" acritico, ma tutto va indagato con una seria lucidità mentale in
tutti i suoi elementi costitutivi, onde evitare facili e infondati entusiasmi,
ciechi fanatismi, assolutizzazioni immotivate e proiezioni allucinatorie della propria psiche. Il "saper discernere"
qui è essenziale, perché il "campo" è complesso, perciò "minato" con il sempre
possibile rischio di scambiare lucciole per lanterne. I fenomeni, di cui sopra,
vanno studiati con accurata meticolosità, vagliati con scrupolo avanzando tutte
le ipotesi razionali per una loro eventuale smentita, confrontati fra di loro
allo scopo di scoprire contraddizioni o coincidenze fortuite. Solo dopo questo
delicato, lungo e faticoso lavoro di filtraggio possono essere prospettate
delle conclusioni, che naturalmente vanno sempre presentate come provvisorie e
personali, mai in maniera dogmatica e da accettare da parte di tutti. Il motivo
è semplice: non tutti ci arrivano come non tutti sono disponibili a mutare le
proprie abitudini di vita perché inevitabilmente a questo inducono tali
esperienze. Il problema qui si sposta sul piano etico, perché fra conoscenza ed
etica, per essere coerenti, esiste una stretta correlazione. Se seriamente
interrogato, il "mistero" risponde, ma tale risposta richiede rispetto, un
personale coinvolgimento vitale, un tipo di relazionalità fatta di "uscita allo
scoperto" e fuori dalla pratica delle quotidiane regole di un gioco.
Se acquisite in questo modo, le
conoscenze di frontiera possono aiutare non poco a comprendere il grande
panorama dell'esistere e del suo significato ultimo. Esse costituiscono la
fonte e come una "spia" per accedere a un ampliamento dei propri orizzonti
mentali per poter giungere ad afferrare quel "senso", senza del quale la vita e
le cose diventano vuote e senza una loro logica interna che pure dovrebbero
avere perché niente è o avviene a "caso". Quest'ultimo assolutamente non spiega
né la varietà né la molteplicità né tantomeno la complessità di ciò che esiste
nell'universo: la semplice evoluzione della materia non è una spiegazione ma la
rinuncia a una più completa comprensione di ciò che ci circonda. Tutto sta nel
saper "comporre" e "mettere insieme" questi input informazionali e trarre da
essi quanto serve a "ri-comporre" il mosaico dalla frammentarietà dei vari elementi
sparsi e disseminati qua e là nel mondo visibile. Questa è la vera "sfida" che
si pone alla conoscenza umana: d'altronde la fisica moderna (fotonica e
logonica) non sta forse offrendo alla nostra intelligenza questi nuovi
strumenti per andare più a "fondo" e non fermarsi così alla superficie
dell'esistere?
3. La funzione della teologia
Nel grande processo del vivere la teologia ha una sua
funzione fondamentale, che è quella di aiutare la ragione e la conoscenza di
frontiera a convogliare verso una giusta direzione le varie ricerche che si
vanno a effettuare sull'ultimo "senso" che occorre dare al proprio esistere. Un
"senso" c'è e non è certamente l'uomo o le cose a tracciarlo o a inventarselo:
esiste al di fuori e al di là di queste precarie realtà. Niente si spiega con
se stesso né nell'ambito soltanto dei propri ristretti orizzonti, dove non si
percepiscono che frammenti sparsi, voci apparentemente disarticolate, segnali a
volte contraddittori. Da qui il fallimento della filosofia moderna, che prima
ha presunto e poi ha rinunciato definitivamente al suo principale compito,
chiudendosi nel proprio relativismo conoscitivo. Non è assolutamente vero che
di Dio o dell'Aldilà non si possa affermare né negare: basta saper ascoltare le
vibrazioni degli esseri per accorgersi della loro "presenza".
In questo discorso come si pone
la teologia? Certamente come una istanza di servizio o, se si vuole, una sorta
di "soccorso" che viene dall'Alto a indicare e illuminare la strada corretta
che bisognerebbe imboccare per poter giungere alla verità. Qui, al dire di
Kierkegaard, è necessario, però, fare
un "salto nel buio", cioè un atto di
fede e di fiducia, senza il quale la ragione non si libera dalle strettoie dei
suoi angusti schemi. Si comincia così a
"volare alto", come un'aquila che si libra nel cielo, da dove può ammirare
sconfinati panorami, paesaggi inattesi, frontiere mai viste prima con il
conseguente ampliamento dei suoi spazi di apprendimento. È il Dio che si
"rivela", si "disvela", quel Totalmente Altro, così chiamato da K. Barth, che
si rende storia per scendere al livello umano allo scopo di purificarlo ed
elevarlo verso piani superiori. È un atto di fede, implicito in ogni
"relazione", è una forma di fuoriuscita dalla propria cosiddetta "cultura" ossificata
e fossilizzata, e un andare incontro all'Ignoto per sondarne qualcosa della sua
misteriosa ineffabilità. La "certezza" non si compra a buon mercato, è una
"merce", passi questa banale parola, pregiata che si offre solo a chi ha il
coraggio di cercarla con costanza, interrogando e percorrendo tutte le vie
possibili. Alla fine, come si ripete spesso, "chi cerca trova": il vero
problema sta tutto qui e non nella razionalità, che non può pretendere di
limitare il tutto al solo visibile o al solo sperimentabile, dimenticando che
se la fonte della conoscenza per la nostra attuale struttura psicofisica è
quella costituita dai sensi, questi ultimi si presentano estremamente
circoscritti con la conseguente limitazione nella produzione dei loro effetti.
Ciò, però, non induce, o non dovrebbe indurre, a una sorta di inerzia o di
sconfitta della ragione: queste sono nei fatti se si pretende di assolutizzarne
la portata.
Dio, allora, invia i suoi
"messaggeri" e, secondo la religione cristiana, addirittura "s'incarna" per
rendersi accessibile all'umana coscienza e comunicarle così una parte dei suoi
indecifrabili segreti. E questo è uno squisito atto di amore, che richiederebbe
solo capacità silenziosa di ascolto, umiltà e una risposta altrettanto amorosa:
l'amore fa scoprire realtà non solo qualitativamente ma anche quantitativamente
maggiori di quelle desumibili o rintracciabili con la semplice ragione.
La teologia, quindi, si pone non
come un qualcosa di fantasioso, di sovrastrutturale e d'improponibile, ma come offerta
di un apporto gratuito e delicato donato dall'esterno perché la conoscenza
umana possa e sappia andare "oltre" la siepe del silenzio e del percepibile ma
non dell'intuibile. Essa si presenta, o si dovrebbe presentare sempre, come una
fresca sorgente alla quale attingere acqua e linfa continuamente nuove, che
assolutamente non soffocano né annegano la ragione, ma la sostengono e la
spingono a immergersi con più sicura, lucida e serena consapevolezza nel grande
oceano del pensiero e del mistero, soltanto solcando il quale si arriva alla
sospirata isola della Terra Promessa.
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