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Il pensiero "breve" e il pensiero "lungo" PDF Stampa E-mail


Viviamo in una società dai ritmi così veloci che spesso si ha la sensazione che non ci sia più tempo per pensare. Andando avanti così le conseguenze non possono essere che la morte dello stesso pensiero, un accumulo di vuoto interiore, una ricerca sfrenata di sempre nuove sensazioni e la realtà di venirsi a trovare anche in giovane età in uno stato depressivo di difficile soluzione. Allora un po' di silenzio non farebbe male, anzi sarebbe necessario per ritrovare la parte migliore di sé soffocata dai rumori, quel famoso "the Sound of Silence" cantato da Simon & Garfunkel.
Non meraviglia se oggi il pensiero a lungo termine o "forte" stia scomparendo: non si sa più guardare al futuro con una progettualità ben organizzata. È come se il "principio speranza" (Ernst Bloch) o quello di "responsabilità" (Hans Jonas) non andassero più di moda, ma "il tempo si è per così dire appiattito, non comportando più la dimensione di un fine ultimo che faceva luccicare il futuro" (Yves Michaud). Si affronta magari anche bene il presente, ma tutto si conclude in questo ristretto cerchio del momento: viene meno il respiro profondo dei lunghi tempi, che solo un pensiero "forte" può avere e può esprimere. L'assenza dall'universo del pensare dell'avvenire che dia un "senso" al presente rende, purtroppo, inintelligibili i comportamenti escatologici praticati dagli eroi, dai santi e dai profeti. D'altronde se manca l'idea di un fine ultimo che spieghi e illumini la vita e la storia è come un non vivere, un farsi trascinare dagli eventi nel loro ineluttabile rifluire verso la distruzione. Sembra che non sia più l'uomo a governare le cose ma queste ultime a dirigere i suoi passi. Il guaio è che si è sviluppato tutto un movimento di pensiero, che, dopo il cosiddetto tramonto delle ideologie, sta condizionando agire e scelte, rendendo così orfano e più povero l'uomo stesso. Questa rinuncia mi sembra francamente incomprensibile e soprattutto non giustificabile, perché se da una parte è stato un bene il ridimensionamento delle ideologie, che pretendevano di avere il monopolio assoluto della verità, dall'altra si è prodotto l'effetto di vanificare anche quelle parziali verità di cui pur erano portatrici. E così ci si è ritrovati drammaticamente in balia del "niente" e del "nulla", dopo aver metaforicamente ucciso un padre e una madre.
Sarebbe ora di ritornare innanzitutto all'esercizio del "pensare" e imparare dall'iconoclastico abbattimento di ogni costruzione ideale e di valori la lezione dell'umiltà, di quell'atteggiamento interiore cioè di pacata e sensata ricerca della verità, facendo diradare le nebbie dell'angoscia e dell'orgoglio. Alla fine si verrebbe a scoprire che la luce, o almeno lo spiraglio, di uno scopo ultimo c'è e questo si disvela a chi si pone nella condizione psicologica di una serena e sincera "apertura" di mente e di cuore. Il pensiero "corto, breve o debole" sopprime l'uomo e la sua voglia di vivere, perché lo rinchiude e imprigiona, inchiodandolo alla croce limitata e limitante dell'attimo; quello "lungo o forte", se esercitato con onestà intellettuale, gli schiude varchi impensabili che potrebbero condurlo verso orizzonti esistenziali di più vasto respiro vitale.
Questo dovrebbe essere il compito della filosofia, della conoscenza scientifica e di frontiera e della stessa teologia. L'uomo, se vuole, può dare e avere di più. Perché allora fermarsi all'inverno del dubbio o al cimitero delle ipotesi e non osare invece acuendo maggiormente lo sguardo come aquile e cercare così di scrutare nuovi possibili frontiere del pensare e, quindi, del vivere?

 

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