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La personalità umana e poetica di Umberto Fraccacreta PDF Stampa E-mail
Ogni vero scrittore è, o dovrebbe essere, la coscienza critica del proprio tempo: di esso è testimone e lettore di bisogni e angosce, di attese e spe­ranze e ne dà corpo e sostanza con il suo impegno artistico. Naturalmente ci sono domande coscienti, internamente legate ai drammi e alle incertezze della realtà circostante, e richieste che affondano nell'inconscio personale e collettivo di una comunità.
Tutte necessitano di una voce per esprimersi e tradursi così in interrogativi visibili e storici. È proprio all'arte che compete questo invito, dal momento che né all'economia né tantomeno alla politica interessano i movimenti inte­riori dello spirito o ciò che di esso è il segno più delicato, cioè sentimenti ed emozioni.
In un mondo goffo e per molti aspetti abbrutito dalla mancanza di idee e di valori, in preda a un oscillante quanto inquietante relativismo etico e com­portamentale, affidarsi alla forza creativa dell'arte è, forse, l'unica via di uscita che è rimasta per la sopravvivenza dell'umanità. Nell'affermare que­sto, credo di non esagerare: d'altronde lo sfacelo è sotto gli occhi di tutti! Venendo al Fraccacreta (1892-1947), del quale ricordiamo il 52° anniver­sario della scomparsa, c'è da dire subito che la sua produzione poetica è attraversata da una pluralità di tematiche: la terra, la donna, la madre, la malinconia, la casa, la religione, San Severo. Il poeta, quello autentico, è l'interprete del sentire comune, al quale dà corpo e voce e una composta dignità: in qualche modo è sempre lo specchio nel quale si rifrange la mul­tiforme policromia, talora sinfonica spesso contraddittoria, di ciò che ci cir­conda. Così è per il Fraccacreta. La cornice linguistica alla quale si richia­ma è riferibile ai moduli della classicità sia per quanto riguarda l'accosta­mento di parole e/o analogie che lo strumento metrico da lui adoperato (sonetti, quinari, endecasillabi sciolti...).
A prima vista il Fraccacreta potrebbe sembrare un po' estraneo al gusto estetico dei suoi contemporanei. Sarà, forse, pure vero, ma è una scelta non dovuta certamente a carenza di letture, tutt'altro! Essa discende, piut­tosto, da una precisa volontà di calare la sua sensibilità di poeta nel conte­sto di una realtà sostanzialmente povera, com'era quella di San Severo e, più in generale, della Daunia e del Sud.

Ciascuno di questi due aspetti (temi-linguaggio) può essere studiato e ana­lizzato secondo logiche interpretative diverse, di cui qui, per brevità, pro­pongo alcune linee.
Il primo livello di lettura è quello consistente nella individuazione del leit-motiv attorno al quale ruota la sua espressione poetica. Primo fra tutti è la terra. Ritorna quasi in tutte le sue opere ("La semente", "Povera gente", "La canzo­ne del viandante", in "Ruralia", nel poemetto "Il pane", "La strada d'erba",...): il contadino, le varie fasi dell'attività lavorativa (aratura, mietitura, vendem­mia,...), i tramonti, le vedute garganiche affiorano nel loro più profondo signi­ficato, fatto di angosce e di paure, ma anche di speranze e di viva e solidale partecipazione alle condizioni in cui allora versava l'agricoltura del luogo. Il Fraccacreta era certamente un aristocratico, non un Rocco Scotellaro che viveva dall'interno i problemi: questo, però, non gli impedì di entrare nella psicologia del contadino, intravedendo con fine acutezza quanto poteva accadere nella vita di una famiglia povera.
Un altro tema ricorrente è la donna, vista dal Fraccacreta come un'amante infelice, languida e romantica, fuggevole sogno del cuore:

Sogna, o cara,
e sarai sempre ignara
del mio pianto infinito.
Come tutto è svanito!"
(Veglia)

I toni qui diventano sfocati, forse un po' oscuri, comunque indefiniti, dalle cadenze talora crepuscolari tal'altra d'annunziane: la donna trasfigurata in "Antea" si fa natura palpabile, per essere più facilmente oggetto d'esperienza:
"Ti svegli alfine
come umida foglia"

(Antea)

C'è poi il tema della madre (Angiolina Sassi) che ritorna con struggente fre­quenza, una donna mite e tenera, ispiratrice di tanta parte della sua produ­zione poetica. Ad essa dedica una raccolta di 12 sonetti "Sotto i tuoi occhi.

"Alla veranda, mamma, tu t'affacci,
le gracili piantine metti al sole... "
(Odor di sole)

La madre diventa sostegno psicologico del Poeta, l'ultimo filo al quale si affida il senso del suo vivere quotidiano:

"Dolce è il tuo viso acceso ma sfiorito...
tu sei abbattuta, e sono anch 'io sfinito...
Risorgi...
... e sappi, il solo
che ti butta le braccia se rincasa,
quegli che se tu non vivi, muore!"

La mamma scompare nell'ottobre del 1944 e la sua morte dà un ulteriore impulso allo scavo interiore del Poeta:

"Tu vivi in me con l'anima tua vera,
e non vuoi il pianto sterile, ma vuoi
ch'io riprenda il mio libero cammino"

Anche altri poeti hanno parlato della loro madre (si ricordi l'Ungaretti): il Nostro, però, è più esplicito e comunque rimane ancorato alla tradizione dell'immediatezza.
Un altro tema aleggia nell'opera del Fraccacreta ed è la malinconia, questa ombra sottile e sovrana, regno di una impercettibile incertezza:

"L'anima mia è ingenua ed errabonda"
(Il primo sogno)

"Tutto vien meno"
(Fine d'autunno, n Elevazione)

La malinconia diventa tristezza indefinita ne "La canzone del giardiniere" (Motivi lirici), solitudine vana ed inquieta, nostalgia della vecchia casa e dei cori della vicina Chiesa ("La casa morta", in Elevazione), dolore in "Vivi e morti".
A confortare il Poeta restano la casa e la religione: la prima è il luogo dei ricordi, della certezza, degli affetti, della ragione ultima del suo vivere (la madre, le radici, il passato); la seconda è legata alle tradizioni intrecciate alla Fede (La calza dei morti, La canzone dell'ulivo, La canzone dell'asfo­delo, Rosa Mistica).
La religiosità del Fraccacreta, pur risentendo delle suggestioni pascoliane, è più contemplazione che riflessione critica, più sforzo per trascendere gli elementi visibili del cristianesimo che adesione a un credo assoluto, insom­ma più universalismo che particolarismo bigotto. In ogni caso, nonostante questo suo interno tentativo, rimane ancora saldamente segnata dalla secolare tradizione popolare.
Sullo sfondo di questo insieme di temi campeggia la sua città, San Severo, questo teatro ricco di ingredienti contrastanti ma pur sempre amato e ammirato dal Poeta nelle sue case, nelle guglie dei numerosi campanili, nel cigolio rumoroso dei carri sul selciato, nei tramonti infuocati dietro lontani monti. Qui, d'altronde, si è snodato il suo ciclo vitale, qui una fetta dell'es­sere e del mondo è penetrata nel panorama variegato dell'anima: è questa città che ha visto scritta la storia del suo passaggio terreno. Un secondo piano di lettura dell'opera del Fraccacreta è quello riguardante il linguaggio. A un'analisi attenta non pochi debiti ha il Fraccacreta verso Autori del passato e del presente: Virgilio, Parini, Foscolo, Pascoli, D'Annunzio, il tardo Romanticismo e il Decadentismo. Ma si tratta di risonanze, non certo di plagio, perché il Fraccacreta è generalmente ben controllato, sobrio, ottimo conoscitore delle lingue moderne e quindi dotato di una sapiente padronanza del verso e delle sue regole. Sarà forse un po' lontano dal nostro gusto di post-moderni, ma la sincerità con cui affronta i vari temi lo rende quanto mai attuale nella nostra drammatica eclissi di autenticità. Ogni messaggio esteti­co, però, è sempre una struttura che si gioca a più livelli. C'è innanzitutto quello stilistico. E qui il Fraccacreta non è un innovatore né vuole esserlo. Lo sperimentalismo gli è estraneo. D'altronde lo dice chiaramente nel Prologo a Elevazione:

"Egli vide la mostra invereconda
d'assai ben variopinti giocolieri
che gran scempio di te, soave Musa,
faceano sul trapezio e sulla corda"

La sua pagina segue procedimenti descrittivi lineari, spesso solari, con il ricorso frequente all'aggettivazione, a parole poste al diminutivo (boccucce, foglioline...), a una grammatica venata di lirismo. Il suo codice linguistico si dipana chiaro e univoco, rifiuta l'ambiguità: questo indubbiamente è un pre­gio, ma costituisce anche, sotto alcuni aspetti, un limite. La poesia è allusi­vità, indeterminatezza, parola non sempre da dirsi ma in grado di far pen­sare. Ma qui siamo già vicini a noi e il Fraccacreta è vissuto in un altro con­testo culturale, perciò è da comprendere e da giustificare. C'è poi il livello sociologico: il contadino visto dal Fraccacreta ricorda molto gli umili del Manzoni, dove la rabbia e la collera per una condizione disu­mana cedono il posto a una più pacata e rassegnata accettazione dell'esi­stente. Il poeta aristocratico s'immedesima nella realtà del povero, e questo gli va accreditato a merito, ma non la vive in prima persona: se non è una colpa, perché non lo è, resta però una visione parziale di quella realtà. C'è ancora quello che definisco livello stratigrafico: qui le immagini si pre­sentano fortemente in movimento, ricche di interna vitalità, articolate con ordine nelle loro successioni, e passano con estrema rapidità da atmosfere mitologiche a descrizioni crudamente realistiche, da ben definiti contenuti ambientali a tessitura di sogni immaginari. In "Nevicata", per esempio, sono fusi in una felice combinazione elementi formali ed elementi linguistici: in 40 versi, ben 36 presentano al loro interno la vocale "a", segno di chiarore e di trasparenza che ben si legano al bianco della neve. C'è, infine, un livello simbolico-psicoanalitico, facilmente evincibile nei temi relativi alla casa e alla madre, tutto un mondo inconscio di legami, di tuffo in zone d'ombra, dalle quali a fatica talora il Poeta riesce a liberarsi. Sostanzialmente gli esseri tratteggiati dal Fraccacreta nel loro piano simbo­lico si presentano come tanti sconfitti (la madre, il contadino, la donna, il fiore, se stesso): il passaggio cioè dal sogno al reale è sempre traumatico. È come se il Poeta volesse dire: meglio non attivarlo. D'altronde chi potreb­be dargli tutti i torti?
Venendo a una conclusione, si può dire che il Fraccacreta si presta a una pluralità di letture. Non è certamente un Autore da sottovalutare né tanto­meno lo si può liquidare sbrigativamente con due parole, come riduttiva-mente fanno Flora e Dell'Aquila. Possiede una sua potenzialità che ha bisogno ancora di essere compresa e apprezzata a sufficienza. Mi astengo dal dire se il Fraccacreta sia da considerare un grande o un piccolo, un conservatore o un innovatore: non sono queste le categorie che interessa­no. Sarà il tempo, nella sua diacronia, a dircelo. Alcune tracce, però, ha lasciato. Una, fra le tante, è l'aver sposato un linguaggio chiaro, lontano dalle asprezze lessicali e metafisiche, che molte volte sanno più di oscuro e di ossessivo che di creativo. Si è rifatto ai modelli classici e questi sono armonia, equilibrio e bellezza, ma con una risonanza tutta sua, personale originale, e io aggiungerei sincera, a differenza di tanta produzione lettera­ria moderna che si presenta o sciatta o internamente schizofrenica, perché scissa nel legame di coerenza fra pensiero-parola-comportamento. Suo merito è l'aver portato questo pezzo di Sud, che è la nostra realtà loca­le, a dignità di materia poetica. Se è stato tradotto anche in francese e se diversi critici e se in vari convegni, da quello del 15/10/1988 a quello dei 17/05/1997, ci si è interessati alla sua opera vuol dire che il suo messaggio qualcosa di serio pur contiene. Il Fraccacreta si pone nella migliore tradizio­ne della poesia meridionale. Un convegno, se non esaurisce certamente la portata della domanda e l'importanza di un'analisi ancora da approfondire, che serva almeno a sollevare un problema: la necessità di recuperare la memoria storica e letteraria collettiva, per costruire su di essa la nostra identità di uomini del presente, che vogliono preparare un Duemila meno dominato dall'eclissi del buon senso e dai fantasmi dell'apocalisse. E che soprattutto si sia più seri nel dare un giusto peso alla cultura, agli uomini più dignitosi che la rappresentano e la praticano, valutandoli con più obietti­vità e libertà di giudizio. Ma sarà così? Ne dubito.





 

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