Di D'Annunzio si sono date
varie definizioni, alla cui formazione non poco hanno contribuito
alcuni suoi atteggiamenti concreti di vita: dilettante di
sensazioni (Croce), opinion-maker («creatore di opinione
pubblica), esteta inattuale per una società di massa, scrittore epigonico
(perché liquiderebbe, consumandola definitivamente, la tradizione
classicista, senza sostituirla con una nuova), inventore di un nuovo lessico
perciò attuale, grande amatore (chi conosce con esattezza il numero delle
donne da lui amate?), poeta di regime. Come ogni definizione, se vuol
essere esaustiva, non definisce un bel niente, perché una parte
non include il tutto: così queste pongono in risalto
alcuni particolari della personalità dello scrittore abruzzese e, proprio
perché molte, ne denotano la ricchezza e la complessità. Solo del
non-senso si tace o al massimo se ne parla poco: i significati sono
proiezioni della sensibilità profonda della persona e a D'Annunzio se ne sono
dati molti.
In questa breve relazione,
inserita per una Tavola Rotonda che ben altri tempi di svolgimento avrebbe
meritato, ne elencherò alcuni che attraversano quasi tutte le
opere dello scrittore e che per chiarezza espositiva divido in due
momenti: «annotazioni estetico-linguistiche e ricerca di motivazioni
inconsce o delle determinanti-coordinate della sua
arte.
D'Annunzio, vissuto
a cavallo fra due secoli, al di là delle apparenze che lo vorrebbero cantore
della vita e dei suoi piaceri, è sostanzialmente il poeta della
negazione. Tratta i temi caratteristici della decadenza, come la
morte, il disfacimento delle persone e del le cose, la metamorfosi, il
labirinto, le ingiurie distruttrici causate dal tempo (statue
con braccia monche e occhi mangiati dagli
anni), la bellezza corporea ma come portatrice al suo
interno del germe della morte. Il suo superomismo è solo di facciata (come d'altronde
le sue imprese di Vienna, Bueeari e Fiume) ,ma non di sostanza, perché i suoi personaggi,
tratti da un mondo borghese in dissoluzione, sono perlopiù degli inetti, dei
malati, dei deboli, dei falliti. D'Annunzio rifiuta il carduccianesimo,
diventa l'interprete e il notaio della crisi di una società fine
secolo, della quale, però, ha voluto essere anche partecipe in prima
persona con il suo stile a volte contraddittorio di vita: in
definitva legge e traduce in linguaggio poetico la sua
stessa fine. L'eroe, quale ha voluto o credeva di essere, ha ceduto
alla Natura e alle sue leggi: quale compensazione migliore o quale sublimazione più efficace del desiderio
di sopravvivenza dal regredire in
forme vitali primordiali, annullandosi con ciò in esse? ll panismo dannunziano
è una conclusione, non una scelta estetica. Le natura é musica e colore,
continua variabilità, figura e simbolo dell' identico ma anche del
diverso: la sintesi espressiva di tutto ciò, nell'uomo, dal momento che
son caduti tutti i valori, è lo scrivere, è la parola, che, quindi, diventa
tutto, forma e concetto, immagine e vita, fine non più strumento. La
sintassi del fare poesia è la ricerca accurata del linguaggio. Egli
stesso si definisce varie volte "operaio della parola". Ha ragione
Geno Pampaloni quando dice che il vero assoluto per D'Annunzio è il rapporto
con la parola e che nessuno più di lui si é
inoltrato nella regione tipicamente novecentesca della narrativa
senza romanzo. Per D'Annunzio la parola è una cosa, un mondo da creare
continuamente: "0 poeta, divina è la parola / e il verso è
tutto", dirà nel romanzo "Il piacere" e nello stesso ripeterà:
"Nella pura bellezza il ciel ripose / ogni nostra letizia, e
il verso è tutto". Nel "Poema paradisiaco" va
oltre quando afferma che la parola ha "una forza terribile", perché
evocatrice di vita, di sensazioni, si fa essa stessa comunicazione con il ritmo
del verso e della strofa. D'Annunzio, appassionato studioso
di filologia e di lingue romanze (non si dimentichi che è stato allievo
di uno dei più grandi filologi che ha. avuto l'Italia, Ernesto Monaci),
aveva assimilato molto bene la lezione dei simbolisti francesi,
come d' altronde stavano facendo anche il tedesco George, il russo Block
e lo spagnolo Rubén Darìo: l'esercizio poetico,cioè, deve essere autonomo dalle
strutture culturali di un' epoca, dalle ideologie.
Un esempio molto
noto della parola-sensazione è dato dalla poesia "La pioggia nel
pineto", tratta da Alcyone. Tutti i sensi sono interessati all' attività
della evocazione: l'udito (odo, crepitio, pianto australe, suona, accordo..,),
la vista (più rade men rade, umida ombra...), 1'olfatto (coccole aulenti,
auliscono...), il gusto (pesca matura,salmastra..), il
tatto (piove sui nostri occhi, vestimenti leggieri...). La realtà-parola, in
"Lungo l'Affrico (da Alcyone), si trasforma in realtà psichica mediante
l'operazione analogica, oltre che servendosi di accostamenti e di equivalenze.
Ancora nella poesia suddetta è evidente la presenza di parallelismi e di
chiasmi (=disposizione incrociata di parole), "su-surro"
al posto di "sussurro",' "arbore" al posto di "albero"
(notare il gioco della "r"), termini che si richiamano
(es. grazia, luna, nere-bianche, bianche-nere...).
Analizzando più da
vicino alcune opere di D'Annunzio^ con più evidenza si
nota questo formarsi estetico del poeta.
Già in "Primo vere" (opera del 1879: lo scrittore aveva
allora appena 16 anni) si afferma la prevalenza del gusto
cromatico-musicale, cosa che si sviluppa con maggiore chiarezza nella prima
edizione del "Canto novo" (1882), dove la scelta della metamorfosi,
l'ammirazione per la natura e la felicità dei sensi costituiscono il tessuto
linguistico predominante. Nella seconda edizione dello stesso (1898) la
spontaneità cede all'irrigidimento classicista e alla musicalità accademica,
cosa che giustamente Sanguineti bolla come "arcadia
musicale", ma non è quest'ultimo il vero D'Annunzio. Le figure retoriche
più usate nel passaggio fra le due edizioni del "Canto novo" sono
la perifrasi nobilitante e l'amplificazione esornativa in direzione
antirealistica. Lo scrittore passa, cioè, da un purismo meditativo a un
manierismo estetico neo-gre-co e neo-romano.
Le opere del
periodo romano (Intermezzo,I883; La chimera, 1885-88$; Elegie romane,
1887-91; II Poema Paradisiaco, 1891-92; I1 piacere, 1889) presentano un
D'Annunzio che approda definitivamente all'estetismo (fra la realtà e il poeta
c'è l'arte) con abbondante produzione di immagini letterarie,
figurative e musicali. Il poeta esprime una grande capacità di assorbimento
culturale che arriva talvolta al limite del plagio. La migliore di queste
opere è "Il piacere", che può essere definito "un romanzo
estetico d'arte", dove prevale più la scoperta di soluzioni ritmico-musicali
che la ricerca di cose nuove e dove l'azione cede il posto
alla descrizione dell'eros nella duplice accezione di lussuria e di sublimazione
mistica della stessa.
In "Giovanni
Episcopo" il linguaggio dello scrittore si fa più documento,
scadendo però nel pittoresco e nel vittimismo: non era certamente
quella del documento la corda più congeniale al D'Annunzio. Ne "Il trionfo
della morte "(1893) l'influsso di Wagner e di Nietzsche è chiaro
: la prosa diventa plastica, quasi sinfonica e teatrale. Al contrario
ne "Le vergini delle rocce" (1895) e ne "Il fuoco" (1898)
il narrare si fa più contemplazione, suggestione, lirismo in prosa. In
"Forse che sì forse che no" (1910) si nota un susseguirsi
di analogie con una sequenza quasi orgiastica di oggetti che vengono nominati.
La produzione migliore in poesia è costituita da "Le laudi"
(1903-16), di cui la più importante è la raccolta
"Alcyone", nella quale predominano
bellissimi avvii, ma sofferti svolgimenti. Non mancano qui usi abbondanti
di perifrasi,come, per esempio, nella XVI laude di Maia, dove si serve di ben 12 versi per
parlare del tranvai.
Il
"Notturno" (il cosiddetto D'Annunzio segreto), iniziato nel 1916 e
pubblicato nel 1921,è forse il prodotto letterario più sincero del D*Anunzio.
È un'opera di memoria, anche se frammentaria, condotta sul
modello di Proust. La figura retorica che
vi predomina è 1'anafora: "Voi lo sapete, voi lo vedete"...Questa volta
domando, questa volta supplico...Voglio tutto rivedere, voglio tutto
riconoscere...Amo questa parsimonia,
questa diligenza..."
D*.Annunzio
sintetizza questa sua ricerca estetica in una lettera all'amico
pittore Francesco Paolo Michetti: " Io metto insieme le sillabe in maniera
suggestiva".
Questo D'Annunzio
estetizzante non si spiega, però, senza fare qualche cenno anche alle
determinanti inconsce della sua personalità.Non si dimentichino le sue
ascendenze parentali: un padre crapulone, una madre dolente e ricattatoria, un
clima familiare borghese. Da questo conte-sto non poteva venir fuori
che una personalità alla disperata ricerca di una identità
comportamentale e di un equilibrio emotivo con un complesso di valori tutto da
inventarsi. In pochi personaggi, come in lui, ei sono stati un contrasto e un conflitto fra morte e vita, fra
eros e thanatos. Questi due temi attraversano tutta la sua
opera e, perché no, anche l'intero arco della sua vita. In tutta la sua
esistenza inseguì la morte attraverso la furia distruttiva dell'amore:
il fuoco divoratore del piacere. Basti ricordare soltanto le 1000
lettere d'amore scritte a Elvira Natalia Fraternali, quelle a Eleonora
Duse, le 400 alla cameriera Angèle: D'Annunzio fu un grande amatore e un
raffinato seduttore, davanti al quale il ricordo di Casanova
impallidisce. Sotto questo aspetto è un mito non facilmente raggiungibile. Ma
c'è anche un altro risvolto: il
seduttore è anche un sedotto, cioè nella sua vita la donna da oggetto si
trasforma fin troppo spesso in soggetto che lo tormenta e lo rende schiavo.
Se è valido quello
che dice Jung che "l'arte", cioè, "è nevrosi e la nevrosi è
opera d'arte", D'Annunzio sembra esserci riuscito in pieno e
il linguaggio da lui usato, che è la traduzione in forma verbale dei
suoi movimenti incosci, ne è la prova. Porto solo alcuni esempi. Senza un Io ben definito e
dominato dal complesso di Cesare, la letteratura diventa il suo Alter-Ego: vi
si butta dentro al punto da identificarsi nell'opera
d'arte (cfr.l'Andrea Sperelli ne "Il piacere" e
Claudio Cantelmo ne "Le vergini delle rocce")j proietta nella ricerca
di parole-mito la sua identità, perciò ama Wagner e Nietzsche, di
cui è stato il primo introduttore in Italia, anche se in verità solo superficialmente;
nell'attività giornalistica si firma sotto ben 22 pseudonimi.
Dicevo che questo è
un alibi, perché quando D'Annunzio scende nel profondo, e poche volte
lo fa, si riscopre malinconico: "Stanca è la carne e spira già 1*animaf in
questa incompresa pac: / Oh lasciate un' Ombra verso la morte
andare"(Elegie romane). '"Ricercando me stesso, non ritrovavo
se non la mia malinconia" (Notturno). Per spegnerla si tuffa nell'azione:
"Tutto fu ambito / e tutto fu tentato" (da"Maia"). Ama
non la Roma dei Cesari, ma quella dei Papi, cioè delle apparenze, della
dissoluzione:"Parliamo / per coprire lo strepito / ch'è in fondo ai nostri
cuori. / E ciascuno di noi è solo attento / a quel che l'altro non
ha detto. / E sembra che il dolore abbia il volto dell'inganno" (Da "La
fiaccola sotto il moggio"). Si legga anche la poesia "Nella belletta"
(Da "Versi d'amore e di gloria"), dove abbondano parole come palude, lutulento,
afa di morte...
Per sfuggire al
confronto con questa realtà lo scrittore introduce la
categoria della metamorfosi, che è una forma di regressione, di ritorno
alle origini, all'utero materno. Qui Eros e Thanatos sono inafferrabili o
quanto meno incontrollabili, perché difettano di connotazioni
precise. Basti ricordare una duplice serie di strutture semantiche.
Da una parte elementi luminosi: il mare e in genere l'acqua ("giogo
ondante" in Elettra; il mare in "Canto novo"; "l'acqua che viene
al cavo della mano", riportato nel "Notturno^: scrive in Maia:
"Colui che trae dall'antica / forza dell'acque / le forze novelle"), luoghi
spaziosi ma chiusi (parchi, giardini), l'amore ("Tutta la terra
pare argilla / offerta all'opera d'amore" in "Lungo l'Affrico").
Dall' altra elementi primordiali: la violenza ("Agosto calda come sangue"
in "Mezzodì"), la guerra ("guerra per mare", in Elettra), gli
archetipi junghiani intesi qui come istinti primordiali e animaleschi
(cfr."Il trionfo della morte", le "Novelle della Pescara", dove
all'eliminazione dell'identità temporale tipica dell'inconscio con
l'uso esclusivo dell'imperfetto si sostituisce il dominio del paesaggio
sul personaggio con una sensualità che s'incarna in esseri primitivi), l'orrido
(come nel "Notturno": "Sono nella mia cassa di legno, stretta e
adatta al mio corpo come una guaina", dove alla frantumazione del
periodare è legata una sovrapposizione temporale, com'è nei
processi di condensazione del sogno; nella vita un simbolo è il lugubre
Vittoriale), il malinconico (l'autunno e la sera nel "Poema paradisiaco").
Nel ricordo delle
origini,in cui tutto è natura, tutto è "silvano", il D'Annunzio
scopre la drammaticità dei due istinti (vita e morte) ed è qui che uccide
l'immagine paterna (peraltro inconsistente nella vita reale):quel padre, che,
ne "Il piacere", è presentato come ispiratore
del culto passionale della bellezza, dell'avidità dei sensi, del disprezzo per
i pregiudizi, della tensione al futuro (l'influsso di
Byron qui e evidente) è prime dissacrato (cene fa con Dante esaltando
Boccaccio), poi schiavizzato (come dice Aligi ne "La figlia di Iorio":
"Ora mi ornerai la schiena" e qui D'Annunzio va oltre Freud, è già
kafkiano) e infine annullato. Ma è solo un' operazione mentale: nel suo
inconscio il padre sarà il condizionatore dell'intera sua arte. Distrutto
tutto, cosa resta se non la decostruzìone
con la scissione tragica del personaggio e quindi l'affermarsi del
Doppio, dell'Altro, di quello che Lacan chiama lo Specchio? (Cfr. "Forse
che si forse che no", "Il trionfo della morte). E qui D'Annunzio precorre
l'incomunicabilità moderna.
In conclusione con
D'Annunzio bisogna fare ancora i propri conti: la
letteratura,anche se ha rimosso, per una malintesa e inesatta lettura
dei suoi rapporti con il fascismo (Mussolini stesso diceva: "D'annunzio
è come un dente guasto: o lo si estirpa o lo si copre d'oro"
e lui preferì coprirlo d'oro; in quel tempo d'altronde tutti furono con il
regime, compreso lo stesso Ungaretti, tanto critico verso il nostro) lo vede
come un creatore di lessico (a cui attinse non poco anche Montale), un attento
analizzatore della parola, un inventore di simboli,
l'acuto poeta della negazione, tolti gli orpelli retorici dai
contenuti più validi. In qualche maniera è un innovatore
nel nostro *900: Ungaretti, Moravia, E. Morante, Pasolini, per non citare che alcuni, hanno
dovuto attraversarlo.
D'Annunzio non è un
incidente ne tantomeno uno scandalo, nella storia della letteratura, specie
poi se messo a confronto con tanta aridità concettuale e poetica presente in
molta produzione contemporanea, che si dimena in esercitazioni cerebrali fin
troppo spesso prive di significato. Tutti siamo un po' dannunziani
nell'arte come nella vita, ci piaccia o no: la rimozione qui non
funziona. Sarà, forse, meno moderno di Svevo, di Pirandello, di alcuni
narratori contemporanei, ma che cos^è la modernità se non l'eterna attività
dello spirito alla disperata ricerca della propria identità
perdnta? Almeno D'Annunzio era. cosciente di questa complessa e
contraddittoria problematica, per questo è fondamentalmente sincero, se
non con gli altri, perlomeno con se stesso .E questo è un grande merito che gli
va
onestamente riconosciuto.
(Relazione tenuta al Convegno su D'Annunzio, San Severo, Sala San Benedetto, 10 marzo 1988)
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