Ogni
opera d'arte, quando è autenticamente tale, ammette vari piani di lettura,
diverse forme interpretative cioè sia della sua composizione strutturale che
del suo messaggio contenutistico. In essa è sempre presente un
plurilinguismo, che sta a denotare la ricchezza dell'insieme e quindi la non
riducibilità del tutto a un solo parametro di giudizio. Cosi è dell'ultima
opera del concittadino Nino Casiglio, 'La dama forestiera'. A parte
la sobria architettura del romanzo (la donazione dei Di Sangro) e l'espressione
di una raffinata cultura in esso tratteggiata, quello che più colpisce è come
l'ambiente umano nei suoi risvolti psicologici pensa, agisce e organizza la
realtà circostante.
Il
Casiglio non presenta qui un racconto come descrizione di eventi complicati
messi su per allettare la fantasia: il "narrato", se c'è, opera
da sfondo, da controluce come in una pittura a rilievo o tridimensionale,
in cui campeggia più il movimento e ciò che intimamente lo anima, clic non la
cosa che si muove. È la vita con le sue eterne e ambigue leggi, le sue
contraddizioni irrisolte o irrisolvibili, le sue ironie e le sue illusioni
che si frantumano contro i silenzi del non afferrabile, a modellare pensieri
e scelte, a dare un senso anche al non-senso, a far prolungare, in altre parole,
ciò che non si è riusciti a dire sul piano individuale. Persone come Elisa (la
dama forestiera) o come il Principe si offrono come due opposte visioni del
vivere: fedele alla memoria e puntigliosa la prima, ben convinta che il
complesso va affrontato a fette, contornando magari di ingenuità e di humour
quelle angolosità talora aspre del reale, ma comunque sempre fiduciosa nella
migliorabilità delle cose; problematica e idealista la seconda, non sempre ben
capace di una sintesi fra passato-presente-fututo, decadente in alcuni momenti
ed esaltante in altri, ma che alla fine si riscatta con un gesto fuori dalle
comuni norme comportamentali (la donazione). A voler considerare bene le cose,
gli opposti qui si unificano in un progetto che trascende le loro stesse
persone e tende a dare una consapevolezza culturale e umana a una realtà
ambientale considerata immodificabile, com'è appunto quella del Sud.
Le
figure di questo quadro (gli avvocati, il notaio, il cappellano, il fattore,
la massa contadina...) pensano coralmente con i ritmi delle cose concrete e
della terra, di cui sono espressione e coscienza: ne dimostrano la relatività,
ma anche l'intangibi-lità delle regole che guidano |il gioco.
C'è
anche, però, il risvolto del quadro: un'altra società, quella del benessere,
chiusa nei limiti spirituali che Io stesso benessere descrive e
fondamentalmente non meno vuota e infelice di quella della povertà. Su tutto emergono l'equilibrio,
il buon gusto, il distacco, la mancanza di eccessi passionali del narratore,
che poi è Io stesso Autore: il tempo sembra dilatarsi nella sua psiche e
abbracciare la metafora della storia, che soprattutto al Sud si ripete perché
rito e tradizione, se sviluppano l'immaginazione, non mutano la sostanza
delle cose.
Il
linguaggio dei personaggi, come di riflesso quello dello scrittore, si
articola per soliloqui e allegorie, per figure e controfigure, si concentra
sul passato come premonitore del presente, si fa più intelletto che
sensazione.
Il filo psicologico
dell'opera è da leggersi nella cadenza, che sottende il modo di essere società
al Sud: l'attesa dell'evento (apportato sempre da un "forestiero"),
che mentre attiva la furbizia di alcuni, appanna l'intelligenza dei più. E si
sa che ogni psicologia dell'attesa, anche se implica un giudizio sui fatti, è
quasi sempre perdente nei confronti della storia.
In
filigrana questo mi sembra voler dire il Casiglio in questo romanzo così umano
quanto nel contempo così sanseverese, così complesso nelle sue affermazioni
quanto così attento nel volerle dosare in tanti leggibili pezzetti di meridionale
saggezza.
(Da Il Corriere di San Severo 20 giugno 1983)
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