Tutti ricordano il mito greco che
racconta di Prometeo che un giorno, contro il parere di Giove, volle donare il
fuoco agli uomini, ponendoli così nella condizione di supplire alla loro
fragilità mediante l'uso di strumenti vari, che in qualche modo potessero
facilitare il percorso dell'esistenza. E così lentamente nel tempo è andata
sviluppandosi la tecnica fino a raggiungere oggi mete impensabili una volta.
Sotto molti aspetti tutto questo indubbiamente è stato ed è un bene, perché si
sono eliminati tanti faticosi lavori, se ne sono alleviati altri, sono stati
resi più agevoli il muoversi e il vivere, abbreviando e avvicinando tempi e
distanze.
Questo notevole progresso è fondato sulla logica dello sviluppo della
razionalità e delle applicazioni delle sue scoperte alla vita quotidiana, tanto
che oggi in qualche maniera si è così fortemente condizionati da esso da
arrivare al punto che un banale black out può mandare in tilt e totalmente fuori
uso apparati produttivi di intere aree urbane, porre in crisi milioni di persone
e sofisticate, oltre che più familiari, strumentazioni necessarie all'esercizio
e alla sopravvivenza di molti servizi. È venuta a crearsi cioè una dipendenza
quasi totale dalla tecnologia, che è diventata in tal modo non solo una risposta
al "negativo" e a ciò che sul piano dei bisogni esso causa ed esprime, ma che
intende e pretende di prescindere da un'anima, che pure l'ha prodotta,
interessandole solo i risultati e la loro efficacia nelle operazioni di ogni
giorno.
Alla tecnologia non premono i "fini" né il "senso" da dare alle
cose, ma solo i "mezzi" e il loro continuo autopotenziamento, nella prospettiva
che il tutto "funzioni" e venga fruito al meglio in modo che a ogni difficoltà
si possa trovare sempre un "rimedio". Anche la stessa accelerazione dei tempi,
una volta determinata dagli eventi della storia, ora dipende dal suo sviluppo
tanto da mettere in soffitta quello che Kant chiamava il "regno dei fini" per
trasformarlo in "regno della necessità". Se questo è il "nuovo pensiero",
giustamente fa osservare il professore di Boston Peter Berger in Questioni
di fede: "Senza una realtà che trascende quella ordinaria della vita
quotidiana, non riesco a reperire un senso alla mia vita". O per dirla con
Simone Weil: "L'incredulo è come il bambino che non sa che c'è del pane da
qualche parte, ma comunque grida di avere fame. Il pericolo consiste non nel
fatto che l'anima dubiti se il pane c'è o no, ma che si persuada con una
menzogna di non avere fame. Può persuadersene soltanto con una menzogna perché
la realtà della sua fame non è una menzogna, ma una certezza" (in L'attesa
di Dio).
A questo tragico buco nero conduce lo spingere alle sue
estreme conseguenze l'assolutizzazione della razionalità e dei suoi prodotti
tecnologici. Il vizio di fondo, che spesso poi induce alla disperazione e
all'esperienza angosciante del "male di vivere", risiede nel fatto che si è
delegato tutto il conoscibile al solo canale della ragione, dimenticando che
essa e i suoi elaborati sono estremamente limitati, perché limitate sono le sue
fonti (i sensi) e, quindi, i suoi contenuti. È semplicemente insufficiente a
contenere l'oceano del possibile scibile. Se si pone come vitale la domanda di
un senso, questa non è dovuta solo alla tradizione giudaico-cristiana (Umberto
Galimberti), ma all'essenza stessa dell'essere e del vivere. Una risposta,
dunque, deve esistere, solo che andrebbe cercata "altrove", attivando cioè un
altro canale conoscitivo che è quello dell'intuizione, da intendere quest'ultima
come la capacità di "leggere i nessi" presenti nell'apparente frammentazione
delle cose e delle azioni. Imparare a saperli scoprire: questo è il compito, ma
anche la sfida, dell'intelligenza umana. D'altronde nella stessa fisica
quantistica si parla di azione a distanza di una particella su un'altra: è come
dire che esse tra di loro "interagiscono". Alla stessa maniera accade tra i
"frammenti": questi "dialogano" fra di loro. All'uomo "vigile" l'onere di
"scrutare" i collegamenti. La tecnologia, dunque, non esaurisce in sé tutto il
reale, ma costituisce solo un "modo" per controllarlo ed eventualmente piegarlo
a un suo utilizzo concreto: la "totalità", però, è oltre essa e esso e questa va
colta con una mente libera, sgombra, attenta, ben consapevole che niente si
spiega con se stesso, ma tutto è "in relazione a un qualcuno o a un qualcosa".
Non è affatto vero che il "perché" non faccia parte del vivere, solo che esso è
scritto, per così dire, in un "altro libro", che non è soltanto quello del
visibile e dello sperimentabile, e quindi del razionale. Da qui il fallimento
dell'escatologia tecnologica, che per sopprimere la fame (S. Weil) pensa
semplicemente di negarla: la "fame", purtroppo, c'è e anche un "pane" è
possibile trovare, ma occorrerebbe essere più umili a saper varcare i confini
angusti imposti dalla "siepe" leopardiana o dalla "grande muraglia" montaliana e
guardare oltre di esse, là dove cioè si sente il "the Sound of Silence" (Simon
& Garfunkel), cioè la "musica del silenzio", nel quale l'Io incontra e
dialoga con se stesso e avverte la voce dell'Eterno, che filtra oltre i rumori
dello spazio e del tempo.
Se non si ha questa visione "globale" della
conoscenza, veramente si dà l'impressione di non aver sufficientemente superato
lo stadio della primitività, di cui la tecnologia, se venerata come un sacro
idolo, è la sua massima espressione. Una via d'uscita e una "salvezza" ci sono,
ma è necessario alzare un po' di più gli occhi dal considerare centrale solo il
proprio soggettivo punto di osservazione.
Su questo argomento così
cruciale per la ricerca antropologica, filosofica, teologica e per la stessa
psicologia di frontiera, le "voci" hanno non poco da illuminare. D'altronde
l'esperienza medesima della metafonia, nella sua variegata evoluzione presso i
molti sperimentatori, è la riprova più chiara del valore strumentale della
tecnologia, che non ha nulla da spartire con quanto affermato dai sostenitori
del "nuovo pensiero". Le "voci" si servono certamente della tecnica, ma vanno
ben oltre nel significato di ciò che intendono comunicare. Infatti non si fanno
minimamente condizionare da essa: molte volte basta un ordinario registratore ed
esse si manifestano. La "loro" è una "relazione" interpersonale e in queste
operazioni dialogiche umane qualunque mezzo può essere utile e buono allo scopo.
Ciò che essenzialmente conta è la disponibilità interiore all'ascolto da parte
dell'interlocutore: tutto il resto è marginale.
Ma cosa in concreto dicono le
"voci" su questo tema sul quale, in questa nostra epoca così contraddittoria e
incerta, si gioca tanto la partita della conoscenza umana? Innanzitutto esse
insistono molto sul "credere". Ma cosa si nasconde dietro questa
parola? Semplicemente il superamento dell'evidenza legata esclusivamente ai
fatti, come a voler dire che ci sono "altre" certezze che prescindono dalla
constatazione dei dati quantificabili e misurabili e che si situano al livello
della percezione intuitiva, cioè del puro pensiero che sa "ri-flettere" su se
stesso e sulla realtà circostante, imparando a sapersi sganciare dalla finita
materialità. L'atto di fede è un processo complesso, che implica e coinvolge
attenzione, emozioni, analisi, sintesi, possibilità di contestualizzazione,
riferimento a un qualcosa di impalpabile e di non sempre tangibile, che va oltre
una lettura puramente tecnica ed esteriore delle cose: si spinge all'interno
della stessa persona e questa non è sondabile con un comune test. Il
"credere" richiama una "finalità", un rapporto certamente non
tecnologico, perché attinge direttamente la parte più segreta e nascosta
dell'uomo, che è la sua spiritualità.
Le "voci" fanno poi riferimento a
un altro concetto: quello di "Dio e del suo grande amore per
l'universo". Dio invece è escluso dal mondo della tecnica, non gli
appartiene, non è manipolabile in nessun laboratorio, non è rintracciabile con
nessun acceleratore di particelle: è quell'Altro che la tecnologia
non capirà mai, mai racchiuderà in una formula matematica né mai afferrerà in un
link elettronico o informatico.
Un altro elemento ci tengono a
sottolineare le "voci, quando dicono: "Noi siamo i viventi". Alla
tecnologia non interessa la vita, ma prevalentemente la "sopravvivenza": la
prima è vista come semplice evento biologico casuale senza alcuna direzione
ultima se non lo spegnimento della stessa, la seconda come temporanea salvezza
della prima da eventuali pericoli che potrebbero violarne l'integrità
(malattie...). E non sempre ciò accade (armi nucleari e chimiche, inquinamento...)!
Il "vivere", perché inserito in una storia che comunque presenta ed è
attraversato da significati, postula un "fine" che in qualche maniera dia loro
una spiegazione: la tecnologia qui si ferma, è muta, cieca e sorda, cioè si
rivela essere un semplice mezzo, la cui validità dipende dall'uso più o meno
saggio che di essa si fa (come in medicina e nell'industria). Non a caso la sua
propensione all'autoriproduzione senza regole né etica sta drammaticamente
ponendo le premesse per la distruzione di questo pur meraviglioso pianeta. Se ci
fosse un atteggiamento etico nella tecnica, allora verrebbe fuori la necessità
di un "senso" e questo da essa non è previsto in alcun modo.
Infine gli
alfieri di questo cosiddetto "nuovo pensiero" sono definiti dalle "voci" senza
mezzi termini come "sciocchi", cioè miopi, poco accorti e comunque
non intelligenti. Quale "salvezza" ci si può attendere da una macchina
senz'anima né cuore e né pensiero?
Questo mondo moderno, che da qualche
secolo (positivismo, scientismo, materialismo, tecnologismo...) ha inteso affidare
la scena e le sorti del suo destino unicamente ai prodotti della mente, sta
veramente e paurosamente rovinando verso l'eclissi che conduce inevitabilmente
al suo tramonto. Guai, poi, se il tutto dovesse cadere in mani criminali
(terrorismo), allora la minaccia sarebbe "planetaria" (Benedetto XVI).
Deliberatamente, dunque, si è voluto per il mondo escludere un "senso", alla
fine non si sta raccogliendo, purtroppo, che l'amara erba della morte. Eppure si
è chiamati a ben altro!
(da 'Il Giornale dei
Misteri')
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